Anatomia del conflitto (1)

Inizio, con questo post, una serie di stimoli e di riflessioni su un tema che innerva la vita dei gruppi e delle organizzazioni: il conflitto.

Innanzitutto, scelgo una definizione di conflitto che mi pare ricca di conseguenze da un punto di vista pragmatico e operativo:

Esiste un conflitto quando esistono degli assetti motivazionali contrastanti in un contesto di interdipendenza e di scarsità di risorse, da cui consegue che la soddisfazione di un desiderio o di un bisogno da parte di un soggetto entra in contrasto con i desideri ed i bisogni di un altro soggetto.

Da questa definizione deriva una prima conseguenza: una certa quota di conflitto è fisiologica (vorrei dire “strutturale”) in un gruppo o in un’organizzazione. I diversi ruoli che costituiscono una struttura organizzata, infatti, presentano strutturalmente assetti motivazionali contrastanti e, di conseguenza, un potenziale conflitto.

Un esempio: in un’azienda che sviluppa software esistono, tra gli altri, due tipologie di ruoli:

  • i commerciali: il loro ruolo è contattare i potenziali clienti, persuaderli della bontà della soluzione, stipulare i contratti e garantire così all’azienda entrate e fatturato.
  • gli sviluppatori: il loro ruolo è sviluppare le funzionalità del prodotto, mantenerlo aggiornato rispetto alle esigenze normative e organizzative dei clienti.

Questi due ruoli presentano assetti motivazionali fisiologicamente e strutturalmente contrastanti rispetto, per esempio, al tema della personalizzazione del software per ciascun cliente.

  • Assetto motivazionale dei commerciali: personalizzare il più possibile. In questo modo il cliente vedrà rispecchiati nel software la sua organizzazione ed i suoi processi, ne verrà rassicurato e sarà facilmente convinto ad acquistare il prodotto.
  • Assetto motivazione degli sviluppatori: mantenere il prodotto il più possibile vicino allo standard. In questo modo, qualsiasi nuova funzionalità sarà facilmente integrabile, si continuerà a garantire la scalabilità del prodotto ed eventuali cambi di versione saranno gestiti in maniera standardizzata e, quindi, con uno sforzo incomparabilmente minore rispetto ad avere, invece, innumerevoli versioni personalizzate del prodotto, che richiedono interventi ad hoc.

Nessuno dei due assetti motivazionali è errato di per sé: entrambi hanno motivazioni solide ed una finalità condivisibile (la prosperità e la crescita dell’organizzazione).

E questo ci porta alla seconda conseguenza della definizione che abbiamo condiviso: una certa quota di conflitto non solo è fisiologica. È anche “sana”.

Se, infatti, prevalesse il solo assetto motivazionale di una delle due parti, probabilmente la sopravvivenza di quella organizzazione sarebbe messa a forte rischio.

Personalizzare il più possibile porterebbe, infatti, ad un proliferare eccessivo di versioni pressoché uniche del pacchetto software che generebbero, nel momento in cui dovessero essere implementati cambiamenti o dovesse essere realizzata una nuova versione, un carico di lavoro tale da mettere in discussione forse anche la continuità dell’azienda.

Dall’altra parte, il prevalere esclusivo dell’assetto motivazione degli sviluppatori (mantenere il prodotto il più possibile vicino allo standard) porterebbe ad avere in portafoglio un prodotto molto semplice da gestire, ma difficilissimo da vendere, visto che la sua rigidità lo farebbe percepire come distante dalle esigenze delle organizzazioni che dovrebbero utilizzarlo.

Il fatto che convivano due assetti motivazionali contrastanti, in questo caso (proprio perché entrambi sono motivati e condivisibili) è una risorsa utile per trovare una soluzione che ne contemperi in maniera efficace i bisogni e gli obiettivi.

Certo, qui iniziano le difficoltà.

Le domande, infatti, diventano:

Come trovare una soluzione al conflitto che sia condivisa da un lato (possa, cioè, incassare il consenso di entrambe le parti) e produttiva dall’altro (permetta di raggiungere l’obiettivo comune dello sviluppo dell’organizzazione)?
Come evitare che quel conflitto degeneri ed impatti negativamente sulla relazione tra gli attori?

A questo tema dedicherò il prossimo post, cercando di delineare quali siano le modalità con cui è possibile “mettere le mani” nel conflitto e come scegliere tra queste modalità a seconda delle diverse situazioni conflittuali.

(La seconda parte del post è qui)

Conflitto: rischio e opportunità

Sabato 21 marzo sarò, con alcuni colleghi del MIP, ad un evento organizzato da Rotary.
Si parlerà di conflitto (sano e patologico) e di strategie per affrontarlo (almeno quando è il caso).
Il mio intervento ho scelto di intitolarlo “Mettere le mani nel conflitto: tra esercizio del potere, persuasione, negoziazione”.

Se il tema vi interessa, il tutto inizierà alle 9 del mattino al Siam, in via Santa Marta 18 a Milano.
Non è neppure necessario prenotare il posto, e per l’ora di pranzo siamo tutti a casa.
Il volantino con i dettagli sta qui.

Il prezzo del ritardo

Tra gli interventi all’ultimo Festival dell’Economia di Trento (o, almeno, tra quelli che ho potuto ascoltare), il più interessante mi è parso quello di un non economista: il filosofo Michael Sandel.

Interessante per il metodo: quello che la buona vecchia scuola avrebbe chiamato “maieutica”. Nonostante il gran numero di persone che assisteva all’evento, un setting aperto e un procedere per domande / risposte / tesi / antitesi. Ma basta vedere il video di una lezione di Sandel ad Harvard per capire di che cosa parlo e come questo modo di insegnare sia parte del suo fascino e della sua autorevolezza.

Interessante per il contenuto. La sintesi la si può leggere qui.

Voglio sottolineare un punto soltanto: quello in cui Sandel afferma che il denaro, e quindi l’attrazione di alcuni beni nella sfera del mercato, può cambiare in maniera irreversibile la natura di quei beni stessi.
Un esempio: in una scuola israeliana, visti i frequenti ritardi dei genitori nel ritirare i figli, si è introdotta una sorta di “multa” per i genitori ritardatari.
Che cosa è accaduto?
I ritardi sono aumentati.
Si era, infatti, trasformato in oggetto di scambio economico quello che prima era un bene morale e civile. Il prezzo del ritardo prima erano la vergogna e la riprovazione sociale.
Dopo aver introdotto la multa, i genitori hanno invece avuto la sensazione che si trattasse del pagamento di un servizio.
Era cambiata la “natura” di quel bene (il tempo extra che gli insegnanti dovevano dedicare all’attesa dei genitori ritardatari).
Nel constatare l’effetto paradossale del provvedimento, i dirigenti della scuola hanno tentato la retromarcia, abolendo la multa.
Di nuovo, che cosa è accaduto?
Invece che ritornare ai livelli pre-multa, i ritardi sono ulteriormente aumentati.
Il segno che la trasformazione del bene è risultata irreversibile.
Ormai era diventata una questione di calcolo di costo / beneficio, senza implicazioni morali o civili.
Si potrebbe obiettare che, a questo punto, per diminuire i ritardi sarebbe bastato aumentare la multa fino al livello in cui l’esborso superasse il beneficio.
Vero, ma questo non fa che confermare il cambio nella natura del bene.

La conclusione di Sandel:

L’economia, come scienza, deve cambiare, non bisogna porsi domande solo sull’efficienza economica, quando piuttosto se i meccanismi che si vogliono introdurre nel mercato eroderanno le norme sociali e se questo avviene, dobbiamo chiederci se l’aumento di efficienza vale la perdita di questi comportamenti.

Una di quelle domande che, mi pare, cambiano l’angolatura di analisi di molte e varie situazioni.

Strategia e frattali

In questi giorni mi capita spesso di insistere in aula su un concetto: quello di visione strategica come visione frattale.
Intendo dire: la visione strategica rispetto ad un processo comportamentale (ma questo può valere anche per altri tipi di processo) è quasi sempre applicabile, utilizzando criteri e distinzioni molto simili, a qualunque livello di zoom si veda il processo.
Il metodo sarebbe, cioè, applicabile sia all’intero processo che a parti dello stesso, a livelli crescenti di dettaglio.
Mi sembra che questo concetto sia particolarmente valido per alcuni dei temi di cui più mi sto occupando in questi giorni: comunicazione, negoziazione, problem solving.
Poi, naturalmente, gli strumenti applicativi (tecniche e tattiche) possono differire anche notevolmente a seconda che ci si trovi ad un livello più o meno macro (o micro) di analisi.

Mi viene da pensare che possa valere anche il contrario. Che, quindi, un buon modo per verificare se ciò che si sta facendo (o su cui si sta riflettendo) ha a che vedere con la strategia oppure no, sia quello di verificare se lo stesso tipo di pensiero (e di criteri e distinzioni) si possa, appunto, applicare a diversi livelli di zoom, senza modifiche sostanziali.

E che questa possa essere una delle caratteristiche del pensiero strategico.

Qualcuno ha idee o opinioni al riguardo?

Questioni di privacy

Luca De Biase provoca un interessante dibattito su un tema che, ciclicamente, trova spazi in rete e sugli altri media: la privacy.
Vorrei proporre una lettura non ortodossa, partendo da un’affermazione dello stesso Luca:

Le conoscenze che le aziende hanno delle persone sono uno dei fondamenti del loro potere di contrattazione (oltre che la base della loro azione promozionale). Le cose che non si conoscono delle aziende e delle persone, sono peraltro ambiti intorno ai quali si può confrontare l’abilità negoziale, la creatività relazionale, la libertà dai controlli.

Parto da un assunto fondamentale di molte delle teorie e dei modelli che hanno a che vedere con il tema della negoziazione (inteso in senso ampio): quello che viene definito il dilemma del negoziatore.
Consiste, il dilemma, nello scegliere quale cornice negoziale dare al processo o ad una fase dello stesso.
Si tratta di rispondere alla domande: quella che stiamo affrontando è una negoziazione distributiva oppure una negoziazione integrativa?
Si definisce come “distributiva” una negoziazione nella quale ci si trova di fronte alla classica “torta da spartire”. Il valore in gioco è dato, il processo negoziale ha come obiettivo una efficiente spartizione del valore stesso tra le parti.
Nel caso della negoziazione “integrativa”, invece, il valore non è dato, nel senso che il processo negoziale si pone l’obiettivo di aumentare il valore stesso (eventualmente, ma non necessariamente, prima di spartirlo).

Va da sé che uno stesso processo negoziale potrebbe presentare momenti di tipo distributivo e momenti di tipo integrativo.
Il problema rilevante che sta dietro a questa banale distinzione è che l’obiettivo di una strategia negoziale dipende in maniera totale dalla cornice nella quale avviene la negoziazione: nel caso della negoziazione distributiva, infatti, l’obiettivo della strategia (e delle tattiche negoziali conseguenti) è il conseguimento del maggior potere contrattuale possibile. Nel caso, invece, della negoziazione integrativa, l’obiettivo della strategia è la generazione di ipotesi alternative di accordo.

Ora, proprio qui risiede il dilemma.

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Costi opportunità

Su Harvard Business Review Italia, un bell’articoletto di Shane Frederick sul potere persuasivo dei costi opportunità.

Parte da un esempio: di fronte all’acquisto di uno stereo Frederick era indeciso se comprare un Pioneer da 1.000 dollari o un Sony da 700 dollari. Il commesso, allora, se ne esce con una frase del tipo:

Beh, la pensi in questi termini: preferirebbe avere il Pioneer o il Sony con in più 300 dollari in CD?

Ponendo la questione in termini di costo opportunità, la scelta diventa più chiara.

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Fare pace con il potere

Su HBR Italia di luglio/agosto, un articolo di Jeffrey Pfeffer (docente di Comportamento Organizzativo alla Graduate School of Business di Stanford) accende i riflettori (come ha fatto recentemente, in Italia, il libro di PierLuigi Celli “Comandare è fottere“, cui ho fatto cenno qui) sul tema del potere nelle organizzazioni.
La tesi è la stessa, non è possibile fare carriera o realizzare i propri obiettivi senza guardare in faccia alla scomoda realtà: per progredire è necessario ottenere ed esercitare potere.

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Cialdini e il principio del consenso

Il nuovo numero di Vendere di più ospita una interessante intervista a Robert Cialdini, autore del notissimo Influence: how and why people agree to things, testo nel quale vengono enumerati i 6 principi psicologici che portano le persone a rispondere “Sì” ad una richiesta.
Mi capita spesso di ripercorrere questo testo, ricco di spunti e di ispirazioni.
Durante l’intervista a Mirco Gasparotto, lo stesso Cialdini riassume i suoi 6 principi.

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Questione di àncore (e di un po’ di rancore)

Alcuni lettori del blog mi hanno chiesto di riportare qui l’articolo che ho scritto per il primo numero di “Vendere di più“.
Eccolo.


L’antivenditore

Questione di àncore (e di un po’ di rancore)

Non sono un venditore, e credo non lo sarò in futuro.
Piuttosto, sono vittima di venditori. Nel senso che mi è capitato spesso, in passato, di ritrovarmi tra le mani oggetti di cui, un secondo dopo il fatidico “sì, lo compro”, ho capito che avrei potuto tranquillamente fare a meno… anzi, avrei voluto fare a meno.
Questa rubrica, quindi, è dedicata a quelli che, come me, attratti dall’ultima mirabolante offerta speciale, hanno, almeno un paio di volte nella vita, provato quella stretta allo stomaco che ti fa dire “ma come caspita ha fatto quel venditore (o quel genio del marketing) a farmelo acquistare?”

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L’antivenditore

Inizia dal numero pubblicato in questi giorni la mia collaborazione con la rivista “Vendere di più – Strumenti e idee per venditori”.
Mi pare si tratti di una bella idea, realizzata bene sia dal punto di vista dei contenuti, che del contenitore.
Non essendo io un venditore (e nemmeno occupandomi di formazione delle forze vendita), ho deciso di chiamare la mia rubrica, in maniera un po’ provocatoria,  “L’antivenditore”, assumendo così il punto di vista di chi, come me, vede il processo dal punto di vista di chi acquista (e, magari, si vuole difendere da qualche venditore particolarmente scaltro).

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