Sui muri e sulla pulsione securitaria. Quindi, sulla rielezione di Trump.

Come fare a non commentarla? Sì, lei: la rielezione di Donald Trump.

Del resto, quale migliore occasione per esercitare un po’ di razionalità a posteriori farcita di qualche “l’avevo detto io”?
Come sapete, sono un politologo di formazione, ma da molti anni non mi occupo più di analizzare in dettaglio il potere politico: ho spostato la mia attenzione sulle dinamiche di potere nelle organizzazioni.
Le cose che dico, quindi, sono il frutto un po’ dei miei studi e un po’ di alcuni pensieri scambiati in questi giorni.

Li sintetizzo in due idee.
La prima è una cosa di cui parlo da un po’, la seconda è una cosa più recente, che la campagna elettorale e i suoi risultati hanno contribuito ad addensare e solidificare.

Uno

La lotta politica, almeno da una ventina d’anni a questa parte, è passata dall’essere uno scontro tra ideologie all’essere uno scontro tra narrazioni. Non mi è chiaro se questo sia avvenuto a causa del cambio dei media, oppure se il messaggio avrebbe seguito comunque questa traiettoria. Fatto sta che è avvenuto.

In questo non vedo differenze sostanziali tra gli schieramenti politici. Barak Obama, per dirne uno, ha interpretato perfettamente questo spostamento.
E se la priorità è dare in pasto personaggi, trame e sfide, allora è quasi naturale la personalizzazione della leadership politica.
Un’ideologia vive in chi la propone.
Una narrazione è chi la propone.

Due

Le sole narrazioni in grado di addensare consenso diffuso di questi tempi sembrano essere quelle basate sulla logica del nemico. Ne ho parlato ampiamente anche in Fate pace con il potere: l’impalcatura del consenso si regge su un messaggio forte veicolato dal leader: all’esterno del gruppo c’è un nemico pericoloso (o anche più di uno) e la priorità assoluta è la difesa dei valori, degli interessi, dei bisogni del gruppo dalla minaccia che esso rappresenta.
Se dovessi dare a queste narrazioni un’etichetta, sarebbe: narrazioni fondate sulla protezione, dove quest’ultimo termine può trovare le più diverse declinazioni.
L’avversario politico come minimo non è in grado di proteggere dal nemico, più spesso è in combutta con quest’ultimo.
Con un elemento distintivo, però, rispetto all’uso della logica del nemico in altri momenti storici: il pericolo rappresentato dalla presenza dei nemici non si traduce in una “chiamata alle armi”. Il solo momento di partecipazione alla lotta al nemico richiesto al cittadino-elettore è, appunto, quello del voto. Una volta eletto, è il leader che si assume l’incarico di costruire i muri (fisici, contro gli immigrati, doganali, contro i concorrenti, legislativi e giudiziari, contro i nemici interni).
Null’altro è richiesto.
Comodo, no?

Per questo (e per alcuni altri motivi che magari spiego in un altro momento) non sono d’accordo con chi invoca come chiave di lettura il fascismo eterno (ur-fascismo) di Umberto Eco. Se i suoi tratti costitutivi si possono ritrovare certamente nella cultura della destra europea e americana più che in quella di altre aree politiche, mi pare proprio servano a poco nello spiegarne il successo elettorale.

A me pare, invece, che il tutto si spieghi con il fatto che i messaggi (e, spesso, i leader) della destra appaiono più credibili nel proporsi come difensori e baluardi. In questo senso, davvero, non ho mai capito chi si domanda come una donna possa votare per Trump. Lo trova, semplicemente, una difesa più credibile. L’obiettivo è di soddisfare quella che Massimo Recalcati definirebbe “la tentazione del muro” (il titolo di un suo bellissimo saggio) e che io adatterei nella “esigenza del muro”. Lo stesso Recalcati, infatti, sottolinea:

Non bisogna dunque liquidare la spinta dell’uomo a difendere i confini della propria vita individuale e collettiva come una spinta in sé barbara o incivile. È un’indicazione che viene da Freud stesso: la vita individuale, come quella collettiva, necessita di protezione, di rassicurazione, edifica barriere per poter sopportare l’avversità del mondo. Gli esseri umani hanno da sempre protetto la loro esistenza; dalla potenza inumana della natura e dalla minaccia dei nemici. La spinta a delimitare il proprio territorio è un’espressione del carattere primariamente securitario della pulsione. Il gesto di tracciare il confine è un’operazione necessaria alla sopravvivenza della vita. La vita ricerca primordialmente il rifugio dalla vita e, al tempo stesso, la definizione di confini in grado di circoscrivere la propria identità.
[…] Senza radici e senza confini verrebbe infatti meno il sentimento stesso dell’identità di un soggetto individuale come di un soggetto collettivo, dell’Io come di un popolo. Non a caso nell’esperienza clinica l’assenza di confine definisce la vita schizofrenica: vita radicalmente smarrita, errabonda, disgregata, frammentata.
Tuttavia l’esistenza umana non è solamente desiderio di appartenenza e di rassicurazione, ma è anche spinta all’erranza, desiderio di libertà.

E da qui sviluppa proprio questa dinamica tra esigenza del confine e aspirazione alla libertà.

Rimangono, mi pare, due fatti.
Il primo: dal punto di vista della comunicazione politica, almeno in questo momento, soddisfare quella che Recalcati stesso definisce la pulsione securitaria sembra funzionare molto meglio di qualsiasi messaggio che faccia leva sull’aspirazione alla libertà.
Il secondo: declassare la pulsione securitaria a istinto ancestrale (ho letto di uomini del pleistocene…) non solo non funziona. Non è neppure giusto. Perché tracciare confini è un gesto che non è puro istinto: è definizione di identità individuale e collettiva.
La dico con le parole Alessandro Baricco:

L’idea di confine è una delle grandi conquiste degli umani sia dal punto di vista geopolitico (moltissime persone sono morte per difendere un confine, ancora mio nonno ha rischiato di morire per difendere un confine nel suo senso proprio più tecnico e più semplice, cioè il confine della sua patria e oggi lo fanno ancora in molti, nel mondo) ma è stata una conquista soprattutto psicologica. […] Mentre edifichiamo ponti, bisogna sempre ricordare che l’idea stessa di confine rappresenta per gli umani una conquista psicologica che è costata un sacco di tempo e un sacco di intelligenza. L’idea di confine, rassegnatevi, coincide con l’idea di identità. Senza confini è molto difficile avere un’identità.
(intervento alla quarta giornata interculturale Bicocca, maggio 2016)

Piuttosto, se si vuole costruire una contro-narrazione che abbia qualche speranza di fare breccia, bisogna ripensare profondamente questa dinamica tra confine e libertà.
Che non è come dirlo.
Conto, davvero, di approfondire.

 

Caro HR, ti scrivo…

Questa cosa l’ho postata su LinkedIN qualche settimana fa.
Sembra che abbia suscitato un certo interesse.
Per questo, la riprendo qui, in una versione leggermente più lunga (che non c’è il limite di caratteri dei post a contenere la mia logorrea). Così, se qualcuno se la fosse persa…

Cara o caro HR manager, specialist, business partner, (insomma, quella o quello che “le persone al primo posto”),
ti scrivo, così entrambi ci distraiamo un po’…

E lo faccio per cercare di chiarire un concetto, sperando ti sia utile.
Quando mi chiami a fare formazione alle tue persone ti stai creando, con le tue mani, un bel problema.
Sì, perché la formazione (di questa cosa sono sicuro come di poche altre al mondo) non risolve nessuna delle questioni per cui di solito gli HRqualcosa chiamano quelli che fanno il mio mestiere. E questo è tanto più valido se si tratta delle cosiddette soft skills (l’ho già detto, vero, che questo termine mi provoca la comparsa di bolle bluastre sulla schiena?).
No, le tue persone non diventeranno più brave a gestire il loro team dopo un corso su come gestire i loro team. E nemmeno più efficienti nell’utilizzo del loro tempo. E, probabilmente (anche se qui la cosa è un po’ diversa) neppure diventeranno più brave a negoziare e a progettare presentazioni. Per dire le cose che, di solito, insegno io.
Anzi, c’è la non proprio remota possibilità che, uscite di lì, le persone, si sentano un po’ più frustrate di quando sono entrate.
E questo se tutto va bene.
Se, cioè, io ho fatto discretamente il mio mestiere.
Non ho, quindi, proposto ricette in 5 punti con cui da domani diventeranno il Cristiano Ronaldo (ah, no, ha sbagliato il rigore. Diciamo lo Jannik Sinner, che va più di moda, anche se non ha vinto a Wimbledon) della gestione del team, del tempo, della negoziazione, del … (mettici quello che vuoi tu).
E non ho propinato nessuna omelia su leadership risonante, gentile, visionaria, empatica e sailcielochecosaltro (ah, mi dici che dovevo propinargliela, che c’è scritto sul contratto?).
E non ho nemmeno spiegato quali sono le cinque, undici, ventisei caratteristiche del leader infallibile (che, quelle, non ce le ha tutte neanche Sinner).
No, ho fatto discretamente il mio mestiere: sono magari riuscito a fare crescere un minimo di consapevolezza delle dinamiche che, probabilmente, si sono trovate o si troveranno, le persone, a dover affrontare se hanno qualcuno che, dentro all’organigramma, sta proprio un gradino sotto di loro (si fanno ancora, vero, gli organigrammi?).
Ho dato un nome alle questioni, ho messo in campo alternative, ho condiviso un linguaggio.
Se è andata di lusso, potrei essere riuscito perfino a costruire con loro un sistema di conoscenze (un framework, come dicono quelli che parlano bene) dove collocare le singole questioni e comprendere in che relazione stanno con altre singole questioni.
Così poi tutto sembra almeno un pochino più chiaro o, almeno, meno confuso.

Ecco, anche se ci sono riuscito, probabilmente ti ho creato un problema.
Perché poi, quando le cose hanno un loro nome e tutto sembra un po’ meno confuso, le aspettative si alzano.
Perché la gente è strana: se tu le mostri quali sono le leve che possono darle una mano a gestire il suo team, il suo tempo, le sue negoziazioni, poi questa si aspetta di avercele a disposizione, quelle leve.
Che ci sia un sistema, un’organizzazione, che la supporta nel fare quelle cose lì.
Che chi sta un gradino sopra nell’organigramma quelle cose lì le faccia per primo.
Che le idee scendano dalle slide e diventino informazioni, processi, organizzazione.

Te l’ho detto: la gente è strana.
E questo è un bel problema, perché proprio quelli che tu pensavi che, “adesso che gli ho fatto fare il corso, busseranno un po’ di meno alla mia porta”, guarda caso, bussano di più.
E poi, cosa irritantissima, hanno un’idea piuttosto precisa di che cosa chiedere…

Condividerai con me che tutto questo è piuttosto seccante.
Ecco, te l’ho detta prima. Così lo sai.
Adesso, se vuoi, qui sotto trovi la mia mail.

Ti auguro una splendida giornata

Luca

Per un approccio politologico allo studio delle organizzazioni

Da quando è stato pubblicato Fate pace con il potere mi sono trovato spesso a discutere (l’ultima volta poche ore fa) del tipo di contributo che un approccio politologico può dare allo studio delle organizzazioni.

Cerco di sintetizzare alcuni aspetti, con il proposito di tornare sul tema nei prossimi post.

Innanzitutto, la scienza della politica mette al centro dei suoi studi il concetto di potere, la sua misurazione, la sua conquista, la sua gestione, trattando il tema in modo laico e non ideologico.
Su questo pilastro, in effetti, si fonda tutta l’analisi che ho condotto nel libro: il potere nelle organizzazioni esiste e va, quindi, studiato con un apparato tassonomico e metodologico adeguato.

In questo senso, la politologia può contribuire a fornire:

  • un vocabolario: parole come potere, autorità, leadership, consenso vengono utilizzate con una certa approssimazione, senza un significato condiviso e una tassonomia solida. La scienza della politica può dare un apporto decisivo su questo fronte;
  • un approccio: proprio perché fa del potere il fulcro del suo studio, la politologia lo tratta come una risorsa scarsa, oggetto di competizione per la sua conquista e di scelte razionali per il suo utilizzo efficiente. Postula, così, una cornice metodologica allo studio del potere come strumento per influenzare i processi decisionali e operativi nelle organizzazioni;
  • alcuni termini di confronto: l’analisi dei processi politici può fornire utili ispirazioni all’applicazione degli stessi modelli ai processi organizzativi, in una dinamica di collegamento per similitudine e differenza utile e fertile per riflessioni al di fuori degli schemi consueti delle discipline dell’organizzazione.

Tornerò a breve sui primi due punti.
Per ora, mi limito a un esempio del terzo.

Come argomenta anche Jeffrey Pfeffer in Power, molto spesso la lotta per la conquista delle posizioni di comando nelle organizzazioni è, anche, una lotta di potere: ogni qual volta si pone il problema di ricoprire una posizione di responsabilità, infatti, i criteri (espliciti, ma soprattutto impliciti) di scelta potrebbero fondarsi su:

  • elementi legati alla capacità dimostrata dai candidati e ai risultati raggiunti;
  • abilità di carattere politico dei candidati, che vengono, in questo caso, misurati sulla loro capacità nel condurre la lotta per il potere.

Definirei, quindi, due tipologie di processi di assegnazione delle posizioni di potere:

  • processi pragmatici: quelli basati sulla capacità e la performance;
  • processi politici: quelli basati sull’abilità dei candidati a condurre la lotta per il potere.

Ecco il punto di contatto tra lo studio del potere politico, inteso nel senso della conquista del potere di governo, e lo studio del potere nelle organizzazioni.
L’arena politica, infatti, è costitutivamente basata sul fatto che lottare per il potere è conditio sine qua non per attuare i contenuti del proprio programma di governo e che la politica stessa, in questo senso, può essere definita come la lotta per la conquista ed il mantenimento del potere di governo.
Ora, alcuni modelli analitici della scienza della politica postulano che la lotta per il potere può avvenire in tre differenti tipologie di arene: la poliarchia, la politica di corte e la politica burocratica.

In una poliarchia la competizione per il potere ha alcune caratteristiche fondamentali:

  1. è aperta: vi possono partecipare liberamente gruppi organizzati di cittadini e questi gruppi possono contestare apertamente chi detiene il potere politico;
  2. è basata sul voto popolare;
  3. la conquista del potere si basa sul sostegno politico dei soggetti che hanno diritto di voto, intesi come singoli individui o come gruppi organizzati (sindacati, associazioni di categoria, eccetera);
  4. la competizione è strutturata in un quadro di regole relativamente stabile;

Nel caso della politica di corte, invece:

  1. la competizione è chiusa: un numero molto limitato di persone ha accesso alle cariche;
  2. è basata sul favore del sovrano, che, solo, decide le posizioni di vertice;
  3. la conquista del potere è, quindi, conseguenza dell’ottenimento del sostengo del sovrano;
  4. la competizione si caratterizza per la sua incertezza ed imprevedibilità: il favore del sovrano può mutare rapidamente ed in ragione di fattori anche imponderabili.

Infine, nel caso della politica burocratica (l’esempio potrebbe essere quello di un partito unico, che detiene il potere e che ha, al suo interno, meccanismi di avanzamento più o meno trasparenti):

  1. la competizione è chiusa: anche se il numero di persone che vi possono accedere è, normalmente, più elevato che nella politica di corte, si tratta comunque di un numero limitato di soggetti;
  2. è basata su meccanismi di cooptazione da parte di chi è già parte della burocrazia;
  3. la conquista delle posizioni di potere si basa sul sostegno dei burocrati dirigenti;
  4. la competizione si caratterizza per un grado abbastanza elevato di prevedibilità (pur se tra meccanismi spesso lenti e macchinosi) per i livelli più bassi della gerarchia, mentre le dinamiche al vertice sono caratterizzate da incertezza e, spesso, da accurata dissimulazione.

Questa tassonomia delle arene politiche potrebbe essere applicata, con opportuni adattamenti, alle organizzazioni, sulla base della tipologia di governance delle stesse, della loro storia e del loro grado di evoluzione:

  • alle arene poliarchiche potrebbero essere paragonate le organizzazioni cooperativistiche o le associazioni, in cui i vertici sono scelti periodicamente dalla base dei soci;
  • alle corti corrisponderebbero le aziende padronali, in cui la corte è quella della famiglia proprietaria (ed in cui, paradigmaticamente, spesso il capofamiglia ricopre il ruolo del sovrano);
  • alle burocrazie, infine, potremmo paragonare le aziende manageriali (che siano public companies o meno), in cui la struttura, le regole ed i processi tendono ad essere formalizzati e stabili.

Le caratteristiche della lotta per le posizioni di potere viste sopra, quindi, potrebbero trovare applicazione alle diverse tipologie di organizzazioni, secondo regole e modalità specifiche.
Se questo è vero, quindi, l’apparato di modelli, distinzioni e metodi che la scienza politica utilizza per analizzare queste arene potrà fornire un contributo utile alla comprensione delle tipologie di organizzazioni corrispondenti.

Ripeto, si tratta soltanto di un esempio tra i molti che si potrebbero fare.

La società della stanchezza

Questo post è il primo di una serie che vorrei dedicare a dei libri che, per qualche ragione, ho pensato che potrebbero stare bene qui. Riporterò, di quei libri, soltanto il titolo, l’autore e alcune citazioni che ho sottolineato leggendolo. A voi giudicare se valga la pena comprarvelo e leggervelo.
Parto con:

Byung-Chul Han

La società della stanchezza

Nottetempo

Su Amazon lo trovi qui

 

Pagina 23

La società disciplinare descritta da Foucault, fatta di ospedali, manicomi, prigioni, caserme e fabbriche, non è più la società di oggi. Al suo posto è subentrata da molto tempo una società completamente diversa, fatta di fitness center, grattacieli di uffici, banche, aeroporti, centri commerciali e laboratori di genetica. La società del XXI secolo non è più la società disciplinare ma è una società della prestazione (Leistungsgesellschaft). I suoi stessi cittadini non si dicono più “soggetti d’obbedienza”, ma “soggetti di prestazione”.

Pagina 28

Il soggetto di prestazione è libero dall’istanza esterna di dominio, che lo costringerebbe a svolgere un lavoro o semplicemente lo sfrutterebbe. E lui il signore e sovrano di se stesso. Egli, dunque, non è sottomesso ad alcuno sennon a se stesso. In ciò si distingue dal soggetto d’obbedienza. Il venir meno dell’istanza di dominio non conduce, però, alla libertà. Fa sì, semmai, che libertà e costrizione coincidano. Così il soggetto di prestazione si abbandona alla libertà costrittiva o alla libera costrizione volta a massimizzare la prestazione. L’eccesso di lavoro e di prestazione aumenta fino a sfruttamento. E se più efficace dello sfruttamento da parte di altri in quanto si accompagna un sentimento di libertà. Lo sfruttatore è al tempo stesso lo sfruttato. Vittima il carnefice non sono più distinguibili. Questo carattere autoreferenziale genera una libertà paradossale che, in virtù delle strutture costrittive a essa connaturate, si rovescia in violenza.
Le malattie psichiche della società della prestazione sono appunto le manifestazioni patologiche di questa libertà paradossale.

Pagina 31

L’eccesso di positività si esprime anche come eccesso di stimoli, informazioni impulsi. Ciò modifica radicalmente la struttura e l’economia dell’attenzione. Di conseguenza la percezione risulta frammentata e dispersa. Anche il carico di lavoro sempre crescente rende necessario una particolare tecnica del tempo e dell’attenzione, che retroagisce sulla struttura dell’attenzione stessa. La tecnica del tempo e dell’attenzione definita multitasking non costituisce un progresso civilizzante.

Pagina 118

Nel mondo odierno si è smarrita ogni divinità e festività. E se è diventato un unico grande magazzino. La cosiddetta economia della condivisione (sharing economy) rende ciascuno di noi un venditore in cerca di clienti.
Riempiamo il mondo di cose dalla resistenza dalla validità sempre più brevi. Il mondo soffoca di cose. Nell’essenza, questo grande magazzino non si distingue da un manicomio. Abbiamo chiaramente tutto. Eppure, ci manca l’essenziale, ossia il mondo. Il mondo è diventato privo di voce e di linguaggio, afono. Il baccano comunicativo soffoca il silenzio, la proliferazione e la massificazione delle cose rimuovono il vuoto. Le cose invadono il cielo e la terra. Questo mondo di merci non è adatto all’abitare, esso ha
perso ogni riferimento al divino, al sacro, al segreto, all’infinito, al solenne, al sublime. Abbiamo perduto anche ogni capacità di meravigliarci.

 

Imprenditori, perché?

Ho iniziato un lavoro di ricerca, con l’obiettivo di indagare le motivazioni e le attitudini di imprenditori, commercianti e professionisti che hanno “ereditato” l’azienda, l’esercizio commerciale o lo studio dalle generazioni precedenti (imprenditori, quindi, dalla seconda generazione in su).
Inizio da un questionario la cui compilazione richiede circa 20 minuti.

A coloro che hanno partecipato chiederò, poi, la disponibilità ad una seconda fase del questionario, sempre della durata di circa 15-20 minuti, composta da 11 domande aperte e, per chi vorrà dare un contributo ancora più significativo all’indagine, ad un’intervista individuale della durata di circa 45 minuti.

La partecipazione alla prima parte non implica alcun obbligo a proseguire nel percorso.

Vi chiedo quindi, se siete tra coloro che hanno ereditato l’attività dalle generazioni precedenti, di compilare la prima parte del questionario.

Si tratta, mi rendo conto, di una richiesta impegnativa.
Credo, però, che anche il solo rispondere alle domande possa suscitare qualche riflessione interessante. Inoltre, a tutti i partecipanti verrà distribuito in anteprima un report di sintesi dell’indagine stessa.

Se, poi, doveste conoscere altre persone disponibili a partecipare, potete invitarle direttamente o segnalarmele alla mail luca@lucabaiguini.com

Per partecipare all’indagine potete seguire questo link o inquadrare il QR code

Indagine – Imprenditore, perché? – Parte 1

 

Imprenditore, perché? - Parte 1

Grazie infinite, fin da ora, a tutti coloro che vorranno dare un contributo a questo lavoro.

La costruzione del nemico

In questi giorni mi è capitato sotto gli occhi un articolo non recentissimo di Hannes Grassegger per Das Magazin, ripreso e tradotto da Internazionale.
Racconta di come Arthur J. Finkelstein e George Birnbaum abbiano progettato, da consulenti elettorali del presidente ungherese Viktor Orbán, una delle più impressionanti e riuscite operazioni di “creazione di un nemico” che sia dato ricordare.
Mi ha riportato alla memoria quanto scrivevo qualche tempo fa sulle modalità di costruzione del consenso, ed in particolare sulla logica amico-nemico.
Il nemico, in questo caso, è George Soros.
E l’operazione è stata talmente ben congegnata da farne non soltanto l’argomento per la costruzione del consenso attorno a Orbán, ma un vero e proprio simbolo (ed una facile risorsa di consenso) per tutte le destre del mondo da allora in avanti. A prescindere da qualsiasi verità a proposito della vita di colui che, da allora, è diventato semplicemente l’emblema di un complotto mondiale contro popoli e nazioni.

Mi sembra che l’articolo confermi quanto ho scritto sui vantaggi di questa logica di costruzione del consenso:

  • velocità nella creazione e facilità nella comunicazione;
  • forza nel reprimere il dissenso;
  • focus sui comportamenti del nemico più che sui propri e, quindi, non necessità di proporre un vero progetto di sviluppo per il futuro.

La logica amico/nemico si riassume nella formula negative campaigning: focalizzare l’agenda elettorale sugli attacchi al proprio nemico piuttosto che sulla proclamazione dei propri valori e della propria visione del futuro, con un duplice obiettivo: compattare gli elettori della propria parte e dividere quelli della parte avversa.

Si aggiunge, però, un elemento che merita di essere evidenziato. Lo riprendo citando due spezzoni dell’articolo:

Finkelstein aveva trovato in lui [Soros, nota mia] l’avversario ideale. Un Mister Liberal come l’aveva sempre sognato, l’incarnazione di tutte le contraddizioni che i conservatori odiano in quegli esponenti della sinistra che hanno successo economico: uno speculatore finanziario che allo stesso tempo chiede un capitalismo più umano. E la cosa più bella è che l’obiettivo della campagna elettorale non era un esponente politico e neanche una persona che viveva nel paese. “L’avversario perfetto è quello che puoi colpire continuamente senza che lui possa colpirti mai”, sottolinea Birnbaum.

Il grassetto, mio, sottolinea un aspetto interessante: individuare un “nemico” esterno al sistema, non in grado di opporre reazioni dirette. Qualsiasi reazione di Soros alla campagna, infatti, veniva regolarmente, come si descrive nell’articolo, utilizzata ad uso della narrazione del nemico.

A conferma di questo:

L’ultimo passo del metodo era tendere una trappola all’avversario: Finkelstein metteva in giro una notizia falsa, contando sul fatto che l’avversario si sarebbe incastrato da solo cercando di smentirla. Infatti reagendo all’accusa l’avrebbe inevitabilmente legata al suo nome, mentre ignorandola non avrebbe avuto modo di confutarla. Nel migliore dei casi poi la falsa notizia sarebbe stata di per sé così strana o sconvolgente da essere ripresa dai mezzi d’informazione.

Qualunque tipo di risposta a questo attacco viene re-incorniciata, appunto, a vantaggio dell’attaccante.

Detto tutto questo, la cosa che fa più impressione sono le ultime righe dell’articolo:

Finkelstein è morto nell’agosto del 2017. L’Ungheria è stata il suo ultimo progetto. Nel 2011, in uno dei suoi ultimi discorsi pubblici, aveva detto: “Volevo cambiare il mondo. L’ho fatto. L’ho reso peggiore”.

 

Post Scriptum
Riporto anche, dalla parte iniziale dell’articolo, una descrizione del profilo di George Soros

Fino a qualche anno fa Soros era un miliardario la cui critica al capitalismo era tenuta in considerazione perfino al Forum economico mondiale di Davos. Un finanziere che una volta faceva parte delle trenta persone più ricche del mondo, ma che poi ha devoluto buona parte dei suoi miliardi alla Open society foundations, una rete di fondazioni, al terzo posto nella classifica mondiale delle organizzazioni a scopo benefico, subito dopo quella di Bill e Melinda Gates. Ma mentre Bill Gates, il fondatore della Microsoft, cerca di alleviare le sofferenze del mondo, per esempio estirpando la malaria, Soros cerca di migliorarlo con iniziative a sostegno dei migranti. Vuole realizzare l’ideale che il suo filosofo preferito, Karl Popper, contrapponeva al totalitarismo: una società aperta.

Fare innovazione diffusa

Fare innovazione diffusaGianni Clocchiatti ha scritto un bel libro, pratico ma anche rigoroso.
Sono, quindi, felice ed onorato di averne potuto scrivere la prefazione, che riporto anche qui.

Fin dall’inizio di questo libro, Gianni Clocchiatti mette sul tavolo due parole chiave che stanno alla base della mission di molte organizzazioni (o, per lo meno, dei manager delle Risorse Umane di molte organizzazioni): creatività e partecipazione.

Verrebbe da dire che sono parole che godono di “buona stampa” nella letteratura manageriale almeno da un paio di decenni: chi non vorrebbe lavorare per un’organizzazione che premia la creatività e stimola la partecipazione?

Una parte importante del mio lavoro di docente in una business school consiste nel sottoporre ad un vaglio e ad una critica serrata le “mode manageriali”, nel tentativo di fornire a chi segue i miei corsi una cassetta degli attrezzi che contemperi un approccio teorico rigoroso corredato con strumenti pratici e pragmatici.

Per questo, lo devo confessare, quando Gianni mi ha sottoposto il suo progetto di un volume sull’innovazione e la creatività nelle organizzazioni, il mio approccio scettico e la mia esperienza mi hanno immediatamente riportato alla mente i gravissimi errori che ho visto commettere nel comunicare e gestire i processi di coinvolgimento dei collaboratori nella generazione di idee.

C’è un motto che condivido spesso con i miei studenti: non c’è errore peggiore di coinvolgere i collaboratori nei processi decisionali e poi negare il loro contributo senza dare un feedback. Si producono soltanto frustrazione e demotivazione. Meglio, piuttosto, imporre le proprie idee e soluzioni: si fanno meno danni.

Questo libro affronta di petto proprio questi temi.

Ecco perché, dopo lo scetticismo iniziale, mi è piaciuto molto leggerlo.

Mi ha lasciato due lezioni importanti.

Primo: la mappatura di una serie di strumenti utili a costruire un processo di raccolta delle idee che non lasci senza un feedback. Che non significa accettazione acritica di qualsiasi idea, ci mancherebbe. Significa semplicemente che il contributo dei collaboratori viene valorizzato non solo per il suo contenuto, più o meno interessante, ma per il fatto stesso di essere stato fornito.

Secondo: una metodologia che aiuta a riconoscere alle persone un ruolo da protagoniste (e non da comparse) nel processo di innovazione, affinché nessuno si senta manipolato da organizzazioni che prima chiedono un contributo ai propri collaboratori e poi non lo sanno valorizzare.

Grazie, quindi, Gianni, per questo bel lavoro.

 

Il libro è disponibile su Amazon qui e su IBS qui

Tassonomie

Dal Dizionario delle scienze fisiche Treccani:

tassonomìa [Comp. del gr. táxis “ordine” e -nomia]
Branca della scienza che studia i metodi con cui si ordinano in sistemi i dati, le conoscenze e le teorie via via acquisite.

Io la uso spesso, questa parola, per spiegare quel che cerco di fare con i miei studenti (è stato proprio uno studente, qualche tempo fa, a definirmi un tassonomista).
Qualche volta si tratta di provare a costruirne insieme, più spesso di trasmettere ciò che io o altri abbiamo già costruito. Perché una tassonomia ben fatta è già di per sé un passo avanti nella conoscenza, visto che richiede di:

  1. definire uno o più criteri di ordinamento;
  2. individuare la struttura del campo di conoscenza delineata da tali criteri (elenco semplice, elenco per insiemi, gerarchia, matrice, cubo, se si parte dal numero di livelli e di dimensioni);
  3. individuare (possibilmente tutti) gli elementi definiti da ciascun criterio;
  4. definire puntualmente il significato dei termini utilizzati per ciascun elemento;
  5. eventualmente anche definire le caratteristiche chiave di ciascun elemento che possano essere utili ad assumere decisioni relative a quella tassonomia (quale tra gli elementi scegliere in determinate circostanze, per esempio).

Qualche esempio delle domande che stanno alla base alcune delle tassonomie oggetto delle mie lezioni:

  • Quali sono i modi per creare consenso?
    Quali i vantaggi ed i rischi di ciascuno di questi modi?
  • Quali sono le tipologie di comportamenti che si possono applicare nel trasferire un compito ad un collaboratore?
    Quale il criterio di scelta?
  • Quali sono i possibili modi per risolvere un conflitto? Quali i vantaggi ed i rischi dell’utilizzo di ciascuna di queste modalità?
    E quando normalmente viene applicato ciascuno di questi modi?

La risposta che ho dato io all’ultima domanda sta qui.

Cerco di analizzare il processo per quest’ultimo caso:

  1. Criteri di ordinamento:
    • modalità con cui viene cercata la soluzione di un conflitto
      • attraverso una soluzione portata al tavolo da una delle parti
        • che viene imposta (Esercizio del potere)
        • che viene “venduta” (Persuasione)
      • attraverso una soluzione che emerge dall’interazione tra le parti (Negoziazione)
  2. Struttura del campo di conoscenza: elenco clusterizzato secondo i criteri visti sopra
  3. Elementi individuati: Potere, persuasione, negoziazione
  4. e 5. li si può leggere nel post già citato.

Naturalmente, non tutte le teorie ed i modelli sono tassonomie, ci mancherebbe.

Anzi, sarebbe forse interessante costruire una tassonomia delle tipologie di teorie manageriali.
Un’altra volta, magari…

Dieci

C’è vento buono, oggi, sul lago. Vele gonfie e spruzzi sulla prua: un bell’andare, visto da qui.

In un giorno un po’ come questo, poco più di dieci anni fa, ho salito per la prima volta le scale del MIP.
Si stava in Via Garofalo, allora.
Mi sa che quel giorno nemmeno mi ero reso conto di quale regalo mi avesse fatto il destino, di quanta intelligenza (a volte vero genio) avrei potuto incontrare su quelle scale, di quante volte si sarebbe avverato il luogo comune per cui un docente impara più di quel che insegna.

Oggi, guardando il lago da nord, il sole in faccia, mi è salito un senso di gratitudine: per Elena e Lucia, che del MIP mi hanno aperto le porte, per i miei Maestri, che mi hanno permesso di arrivare a quell’appuntamento non troppo impreparato, per tutti quelli che hanno reso questi dieci anni quel che sono stati: vento buono e un gran bell’andare.
Grazie, davvero.

Top Employers HR Conference

Il prossimo 16 Giugno coordinerò la tavola rotonda finale della Top Employers HR Conference, evento organizzato da Top Employers, AIDP e dalla School of Management del Politecnico di Milano.

Il titolo della giornata:

Prendiamo le misure: Tecnologie e Metriche verso il domani

L’appuntamento è alle 9.00 al Politecnico di Milano, Aula L 1.2 – Edificio B12 – Campus Bovisa in Via Lambruschini 15.

Per chi fosse interessato, maggiori informazioni qui e registrazione (l’evento è gratuito) qui.