Qualche giorno fa, durante la pausa di una lezione, si parlava di figli adolescenti. Uno degli allievi criticava l’uso dei social network da parte dei ragazzi di quell’età con un argomento che mi è parso più interessante di altri: il diritto degli adolescenti che le loro stupidaggini vengano dimenticate. In sintesi, diceva che tutti abbiamo fatto qualche cosa stupida a quell’età, cose che oggi non ci passerebbero nemmeno per la testa. Quelle cose sono state, per lo più, dimenticate.
Lo stesso non accade per quanto avviene sui social network, dove tutto viene registrato ed è, potenzialmente, disponibile anche a distanza di molti anni.
Non so se essere d’accordo, che questo rappresenti concretamente un problema.
Di una cosa, però, sono abbastanza sicuro: la tecnologia sta cambiando il nostro rapporto con la memoria e, per estensione, con il tempo.
Fino a poche generazioni or sono, almeno fino all’invenzione della fotografia, quasi nessuno aveva la possibilità di “registrare” in qualche modo l’evoluzione, per esempio, del proprio aspetto fisico e di quello dei propri cari. Senza fotografie, probabilmente avrei dimenticato completamente l’aspetto delle mie figlie quando avevano due o tre anni.
Questa forma di oblio è stata valida (con poche eccezioni) anche per molti anni dopo l’invenzione della fotografia.
Almeno fino a quando quest’ultima è diventata un fenomeno di massa.
Il primo sospetto, non serve dirlo, è che siamo soltanto all’inizio di questa evoluzione.
Il secondo è che l’attrezzarci da un punto di vista tecnologico sia la faccenda meno complicata.
Se, infatti, aggiungiamo (notizia sentita in una trasmissione radio qualche mese fa) che le proiezioni dicono che circa la metà dei nati dopo il 2000 arriverà ad essere centenario, pare che sia proprio il nostro rapporto con il tempo e con la memoria a dover cambiare.
Ci serve, insomma, un nuovo Proust.
Perché (e di questo sono ogni giorno più convinto) cose come queste non possiamo affrontarle senza il contributo dell’arte.