Bastone e carota

Sul Corriere della Sera, un articolo di Corinna De Cesare riporta una ricerca compiuta da McKinsey su 3.500 aziende manifatturiere da 50 a 5.000 dipendenti.

Risultato:

«Il nostro è un Paese molto attento al prodotto, infatti pubblicizziamo il made in Italy», spiega Gianfranco Scalabrini, Associate Principal di McKinsey, ma «non ci rendiamo conto che una migliore gestione delle persone, attraverso il loro coinvolgimento nelle fasi strategiche dell’azienda, la partecipazione a un sistema di coordinamento per obiettivi e l’applicazione di criteri meritocratici, aumenterebbe di molto la produttività aziendale».

[…]

L’Italia come capacità amministrativa del personale si posiziona agli ultimi posti dopo la Cina e davanti soltanto a India, Portogallo e Grecia.

[…]

In Italia, soprattutto nelle piccole e medie imprese, c’è una vera e propria carenza nella politica di gestione delle persone.

La ricetta:

Adottare insomma una politica da “più carota e meno bastone” consentirebbe una maggiore produttività e l’ottenimento di migliori risultati.

Proprio ieri ho affrontato questo argomento con un gruppo di giovani ingegneri di Italcementi.
Mi pare una semplificazione eccessiva il ridurre le questioni relative alla gestione della performance individuale ed alla partecipazione dei collaboratori agli obiettivi aziendali alla formula “più carota e meno bastone”.
La maturità del collaboratore, il ciclo di vita del gruppo, l’equilibrio tra compito e relazione sono tutti fattori che impattano sulla scelta degli strumenti da utilizzare per favorire la costruzione di team orientati alla produttività. Paradossalmente (ma non poi tanto, credo che molti abbiano vissuto esperienze di questo tipo), un eccesso di carota potrebbe portare un team a chiudersi e a generare resistenza al cambiamento. Come un eccesso di bastone porta conflittualità latente nel team.
L’equilibrio tra compito e relazione è un bell’esercizio di giocoleria a cui i manager sono chiamati.
Ed è importante conoscere quali sono le leve a disposizione per mantenere la barra del team puntata verso la produttività, in ogni fase della sua crescita sia nello sviluppo delle attività che nel ciclo delle dinamiche relazionali.

E poi, carota e bastone vanno bene per governare gli equini… e per chi ha a che fare con un team di aquile?

I team di Lazard

Su Harvard Business Review di Gennario – Febbraio, un’intervista a Bruce Wasserstein, CEO di Lazard.

Un passaggio mi ha ricordato un argomento che tratto diffusamente nei percorsi formativi sulla Gestione del tempo, e che ha a che vedere con l’impatto che il modello individuale di relazione con il tempo ha con il team management ed il teamwork.

La domanda:

In più occasioni lei ha creato team straordinari, formati da persone di grande talento. Come riesce ad attrarle, motivarle e trattenerle?

Una parte della risposta:

Ogni sistema attrae le persone per cui risulta invitante. Una struttura burocratizzata con una riunione tutte le mattine alle 8 e un report da consegnare a fine giornata intuitivamente dà l’impressione di un buon management. E in alcune aziende funziona. Ma se io avessi fatto così avrei perso le mie persone migliori, quelle che io voglio. In Lazard sacrifichiamo un certo grado di efficienza optando deliberatamente per una cultura di management in qualche modo meno centralizzata.

Siamo stati molto fortunati. Da quando sono arrivato abbiamo avuto un tasso di turnover molto basso. La nostra cultura trattiene le persone a cui piace l’atmosfera che qui si respira: e cioè, qui ci divertiamo. C’è molta fiducia. Individualità e creatività sono tenute in considerazione. Le persone godono di grande indipendenza e traggono molta soddisfazione dalla visibilità del proprio lavoro, soprattutto coloro che vengono da grandi banche dove non si opera nelle stesse condizioni.

Queste affermazioni mi ricordano il modello di analisi antropologica ideato da Edward Hall, basato sui concetti di culture high context da un lato e low context dall’altro.

Dedicherò un post a breve a questo argomento.

La solitudine del leader

Giovedì, una interessante sessione formativa con i ragazzi e le ragazze di Aiesec Pavia.
Si è parlato di teamwork, team management, team building (le slides sono a fondo post).
In realtà, essendo l’intervento basato su un gioco di simulazione, io ho parlato poco. Molto hanno fatto i partecipanti.
Il gioco simulava un teamwork con un compito preciso ed alcuni vincoli: il più rilevante era il fatto che tutti i giocatori erano bendati.
Una cosa interessante: ad un certo punto del gioco, uno dei giocatori è stato “sbendato” per alcuni secondi. I suoi colleghi sono stati informati del fatto. Naturalmente a questo punto quel giocatore non ha potuto esimersi dall’assumere un ruolo di leadership, visto che possedeva informazioni esclusive e preziose per il raggiugimento dell’obiettivo.
Una volta ribendato, però, il giocatore non è stato in grado di dare un apporto positivo dal punto di vista del compito (il gioco è stato ripetuto con due gruppi diversi: per uno dei due gruppi addirittura quello che era parso un aiuto si è rivelato in realtà un ostacolo), ed anche dal punto di vista degli equilibri relazionali si è creato un certo sconquasso.
Al punto che entrambi i giocatori (uno per gruppo) che si erano visti rimuovere il vincolo della cecità, durante il debriefing hanno sottolineato come, forse, “sarebbe stato meglio non sapere“.

Esperienza interessante, mi pare….

Il mestiere di dirigere

em02.gifAncora sul libro di Claudio Demattè, di cui ho già parlato qui.
Su Economia & Management, una mia recensione.

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Per chi desidera commentare la recensione (o il libro), questo è il luogo adatto.

Altre recensioni per Economia e Management:
In un battere di ciglia di Malcolm Gladwell
Lovemarks di Kevin Roberts

Il processo del rendere ragione

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Emergo or ora dalla lettura di Perché? La logica nascosta delle nostre azioni quotidiane, di Charles Tilly.
In alcuni punti i ragionamenti di Tilly mi sono parsi un po’ farraginosi, ma nel complesso la struttura del libro è davvero interessante, e la scrittura sempre agile e, a tratti, divertente.

La tesi di fondo del libro è che il processo del “rendere ragione”, dello “spiegare il perché” non trova le sue radici nel desiderio di conoscenza, di verità, di coerenza. Piuttosto, quando un individuo indica le ragioni di qualcosa, sta compiendo un vero e proprio processo di negoziazione sociale. Attraverso il tipo di spiegazione scelta sta definendo, consolidando o riallacciando la propria relazione con l’altro (o gli altri).

In generale, le spiegazioni e le ragioni fornite ricadono in quattro tipologie generali, che Tilly definisce così:

Convenzioni: ragioni convenzionalmente accettate per spiegare le negligenze, i cambiamenti, le peculiarità distintive o la fortuna: il mio treno era in ritardo, è finalmente arrivato il tuo turno, ha una buona educazione alle spalle, è soltanto un uomo fortunato, e così via.

Storie: racconti che offrono una spiegazione causa-effetto per spiegare fenomeni insoliti o eventi eccezionali come la catastrofe dell’11 settembre, ma anche il tradimento di un amico, la vincita di un grande premio o l’incontro con un ex compagno di classe in Egitto, alle piramidi, vent’anni dopo il diploma.

Codici: governano azioni come le sentenze giuridiche, le penitenze religiose o il conferimento di medaglie.

Spiegazioni tecniche di quanto viene indicato nelle prime tre categorie: per esempio, le diverse possibili ragioni che un ingegnere strutturale, un dermatologo o un ortopedico pongono a spiegazione dei fenomeni oggetto dei loro studi, nel momento in cui si propongono di identificare delle precise connessioni tra effetti e cause.

I diversi tipi di spiegazione si possono classificare così:

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Da un lato troviamo, quindi, le spiegazioni “popolari”, dall’altro le spiegazioni specialistiche, mentre, leggendo dall’alto in basso, nella parte alta le spiegazioni basate sulle semplici associazioni, nella parte bassa quelle basate sul rapporto di causalità.

Questi tipi di spiegazioni, quindi, si intrecciano profondamente ai rapporti interpersonali. Citando direttamente Tilly:

All’interno dei loro specifi ambiti di competenza, quando si tratta di render ragione i professionisti promuovono e fanno rispettare la priorità dei codici e delle spiegazioni tecniche sulle convenzioni e le storie. […]
In particolare, i professionisti tendono a sviluppare una certa abilità nel tradurre le convenzioni e le storie nei termini dei loro idiomi preferiti, e nell’istruire altre persone a collaborare a quest’opera di traduzione. […]

In un dato contesto sociale, di conseguenza, quanto più la specializzazione delle conoscenze si fa marcata, tanto più risulterà accentuata la predominanza di codici e spiegazioni tecniche. Le aule dei tribunali, i laboratori e gli ospedali dimostrano ampiamente questo principio. Spesso noi esterni percepiamo questo fare affidamento sui codici e sulle spiegazioni tecniche come un mero ricorso a espressioni gergali, se non come un’opera di mistificazione.

Finché le relazioni tra chi parla e chi ascolta sono distanti e/o chi parla occupa un grado sociale superiore, costui tenderà a servirsi di formule anziché di spiegazioni causa-effetto. […]
Chi ricorre alle formule sta quindi rivendicando la propria superiorità e/o la distanza del rapporto. […]
Di solito, chi ascolta si oppone a tali rivendicazioni – quando lo fa – chiedendo delle spiegazioni causa-effetto. […]
Tali domande assumono tipicamente la forma di espressioni di scetticismo riguardo alle formule indicate, congiunte alla richiesta di spiegazioni più dettagliate sul come e sul perché Y si è di fatto verificato. […]

Nel caso di codici presentati con la forza dell’autorità, tuttavia, un ascoltatore preparato può anche mettere in discussione le ragioni indicate prendendo a propria volta il codice e dimostrando che il suo interlocutore lo ha usato impropriamente. […]

Anche in presenza di una situazione di distanza e/o di disuguaglianza tra gli interlocutori, qualora chi ascolta abbia il palese potere di influire sulle successive sorti di chi parla, quest’ultimo passa dalle formule alle spiegazioni causa-effetto.

 


Sul tema del public speaking e di come costruire una strategia di comunicazione in pubblico ho scritto un libro: Il design delle idee (Egea Editore). Più informazioni qui

 

Leadership e identità

Su Mente e Cervello di ottobre, un articolo interessante: I nuovi leader.
Si tratta di una disamina di come è cambiato il concetto di leadership e di quali siano le caratteristiche di un leader efficace.

Un passaggio mi è piaciuto molto:

Negli anni settanta, Henri Tajfel e John C. Turner, allora all’università di Bristol, condussero studi decisivi sul modo in cui i gruppi ristrutturano la psicologia individuale. Tajfel coniò il termine “identità sociale” per riferirsi a quella parte del senso del sè di un individuo che viene definita dal gruppo. L’identità sociale, osservava Turner, consente inoltre alle persone di identificarsi e di agire insieme in qualità di membri di un gruppo: per esempio come cattolici, come americani o come tifosi di una certa squadra di calcio. Le identità sociali rendono così possibile il comportamento di gruppo: ci permettono di raggiungere il consenso su quello che riteniamo importante, di coordinare le nostre azioni con quelle altrui e di impegnarci su obiettivi condivisi. […]
Tempo fa dimostrammo l’importanza delle identità sociali per la leadership in un esperimento battezzato BBC Prison Study, un’indagine sul comporatamento sociale all’interno di un ambiente carcerario simulato. Dopo aver diviso un gruppo di volontari in “prigionieri” e “guardie”, scoprimmo che tra i prigionieri emergeva una leadership significativa ed efficace, ma non tra le guardie, perché solo i primi sviluppavano un forte senso di identità sociale condivisa, fondato sul comune desiderio di resistere all’autorità. Le guardie, invece, erano prive di un’identità di gruppo, in parte perché alcune di loro non si sentivano a proprio agio in una posizione di autorità; di conseguenza, non sviluppavano una leadership efficace, e finirono per crollare come gruppo.
Quando c’è un’identità sociale condivisa, chi riesce a rappresentarla meglio avrà la maggiore influenza sui membri del gruppo e sarà il leader più efficace.

E, ancora, a conclusione dell’articolo:

La nuova analisi psicologica ci dice che affinché la leadership funzioni bene, capo e seguaci devono essere legati da un’identità condivisa che serve da base per l’azione.
La responsabilità di questa identità può variare. Negli scenari più autoritari, i leader possono pretendere giurisdizione assoluta sull’identità, e punire chiunque dissenta. In quelli più democratici, i leader possono impegnare la popolazione in un dialogo sulla loro identità condivisa e i loro obiettivi comuni. In entrambi i casi, lo sviluppo di un’identità sociale condivisa è la base della leadership influente e creativa. Chi controlla la definizione di identità può cambiare il mondo.

Proprio recentemente, durante un corso di formazione, mi è capitato di condividere alcune considerazioni su quanto sia importante per un leader leggere gli elementi costituenti dell’identità del gruppo. E di valutare come i cambiamenti che egli auspica e promuove impattano su questa identità. Una sottovalutazione di questo impatto genera nel gruppo livelli di resistenza al cambiamento molto, molto difficili da superare.

Il ritratto del leader

Su IlSole24ore, i risultati di una ricerca condotta su un campione di lavoratori. E’ stato chiesto di dipingere il ritratto del capo ideale.

Ne è uscito un uomo italiano, cinquantenne, con la capacità di:

  1. Supportare la ricerca di soluzioni innovative attraverso la sintesi e la sperimentazione
  2. Valorizzare le idee dei collaboratori e dare la possibilità di lavorare in autonomia
  3. Valorizzare il contributo di tutti per l’efficace gestione delle riunioni
  4. Valutare i propri collaboratori gestendo il processo di feedback e misurando i risultati portati da ognuno
  5. Agire da coach valorizzando il potenziale
  6. Stimolare il miglioramento trasferendo delle certezze
  7. Gestire i collaboratori creando spirito di squadra e appianando i conflitti
  8. Valorizzare i risultati della squadra anche verso gli altri capi

Secondo voi, cos’altro?

Niente scuse… per decreto

In questo articolo di BBC News, il racconto di come un sindaco russo abbia bandito alcune frasi dal linguaggio degli impiegati del suo comune.
Eccone alcuni esempi:

“Non c’è denaro”
“Che cosa ci posso fare?”
“Stiamo pranzando”
“La giornata lavorativa è terminata”
“Qualcun altro ha i documenti”
“Non lo so”

Il sindaco sostiene di avere stilato la lista perchè stanco di sentire persone dire che i problemi sono impossibili da risolvere, invece che ipotizzare soluzioni.

Resta da stabilire se l’imposizione per decreto sia il più efficace dei mezzi per indurre i collaboratori ad assumersi responsabilità ed evitare gli scaricabarile. Ma, certo, un pensierino…
E tu, che frase bandiresti?

Articolo segnalato da Knowhr

Potere, intenzione, interesse

Quando, in aula, si parla di leadership, quasi inevitabilmente si finisce per affrontare l’argomento del potere (in azienda e nelle organizzazioni). Si fa sempre fatica a trarne qualcosa di positivo e utile, forse per i connotati negativi che si accompagnano a questo termine. Mi aiuto, allora, cercando di oggettivare il termine, e di darne una definizione il più utile possibile. Il mio maestro di Scienza della Politica, il compianto Mario Stoppino, definì il potere come

“una causazione sociale intenzionale o interessata”

Per dirlo in maniera più distesa:

Come fenomeno sociale, il potere è […] un rapporto tra uomini. E si deve subito aggiungere che si tratta di una relazione triadica. Per definire un certo potere, non basta specificare la persona o il gruppo lo detiene e la persona o il gruppo che vi è sottoposto: occorre anche determinare la sfera di attività alla quale il potere si riferisce, o sfera del potere. La stessa persona o lo stesso gruppo può essere sottoporto a più tipi di potere relativi a diversi campi. […]

Quando la capacità di determinare la condotta altrui viene messa in atto, il potere da semplice possibilità si trasforma in azione, nell’esercizio del potere. Sicché possiamo distnguere tra il potere come possibilità, e il potere effettivamente esercitato, o potere attuale. Il potere attuale è una relazione tra comportamenti. Esso consiste nel comportamento di A (individuo o gruppo) diretto a modificare la condotta di B (individuo o gruppo) o tale da modificare la condotta di B nell’interesse di A; nel comportamento di B, in cui si concreta la modificazione della condotta voluta da A o corrispondente all’interesse di A; nonché nel nesso intercorrente tra questi due comportamenti.

Mario Stoppino, Potere e teoria politica, 1982

Definito in questo modo, il potere è una relazione tra comportamenti, spinta o dall’intenzione (modificazione della condotta di B voluta da A) o dall’interesse (modificazione della condotta di B nell’interesse di A).

Mi sembra che questa distinzione tra intenzione ed interesse sia davvero intrigante, e rappresenti una chiave di lettura per molte dinamiche tipiche delle organizzazioni.

Cito di nuovo Stoppino:

Se vogliamo allargare la nozione di potere al di là della causazione sociale intenzionale, e cerchiamo un punto di riferimento per tracciare un nuovo confine, dobbiamo guardare al concetto di interesse. Diremo allora che A esercita potere su B quando con un comportamento a causa intenzionalmente un comportamento b di B; oppure quando con un comportamento a causa non intenzionalmente un comportamento b di B e ha contestualmente un interesse per il comportamento b. Più specificamente, in relazione al discorso fatto fin qui, i rapporti che intercorrono tra interesse, intenzione e potere possono essere riassunti schematicamente nel modo seguente. L’interesse di A può esprimersi in un’azione che provoca intenzionalmente il comportamento b di B (esercizio deliberato di potere); oppure può accompagnare un’azione di A che provoca in modo non intenzionale il comportamento b di B (rapporti di potere ipotizzati da White, caso dell’imitazione o del contagio del comportamento); oppure, in quanto si palesa in condotte e atteggiamenti di A conosciuti direttamente o indirettamente da B, può provocare il comportamento b di B, il quale si attende in tal modo di evitare delle reazioni spiacevoli o di ottenere delle reazioni piacevoli da parte di A (potere operante attraverso le reazioni previste).

Quanto spesso accade, nelle organizzazioni, che le relazioni di potere siano determinate più dagli interessi che dalle intenzioni?
Quali conseguenze ha questo fatto sulla leadership e sull’esercizio della leadership?
I leader sono consapevoli del fatto che determinano (e/o possono determinare) dei comportamenti non soltanto attraverso le loro intenzioni, ma anche attraverso i loro interessi?

Mi sembrano domande fertili da cui partire per parlare (in aula e fuori) di leadership e potere.

Tempo & organizzazioni

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Su Eccellere, un mio articolo:

Persone e organizzazioni “a tempo”

Si parla di come la comunicazione che riguarda la gestione del tempo impatta a livello organizzativo e di identità aziendale, e di quali sono le direttrici su cui concentrare questa comunicazione.

Se lo desiderate, potete commentare l’articolo da questo post.