Anno nuovo, vecchie abitudini

Anno nuovo, vita nuova. O, magari, ritorno a qualche vecchia, buona abitudine…

Non scrivo qui da molto, molto tempo. Lo scorso anno è stato ricco di novità, da un punto di vista professionale, ma anche di parecchie dispersioni (alla faccia del time management, che pure insegno…).

Non ho, insomma, applicato la massima di Cal Newport che, pure, mi sono ricamato sul cuscino:

Do fewer things, do them better, know why you are doing them.

Fai meno cose, falle bene, sappi perché le stai facendo.

Ecco, ho fatto un po’ il contrario.

Due note positive, almeno per me, però, ci sono:

  • ho dedicato più tempo a me stesso (bicicletta e camminate, soprattutto: vivo in un bel posto ed è sempre un peccato non approfittarne) e a famiglia e amici;
  • mi sono concentrato sulla stesura di un nuovo libro, che è in fase di editing e dovrebbe vedere la luce tra aprile e maggio. Se vorrete, lo troverete “nelle migliori librerie”, come si diceva una volta (che non si capisce se sia perché il libro è talmente bello da essere degno di stare nelle migliori librerie, o se le librerie siano le migliori proprio perché tengono il libro. Se posso scegliere, opto per la seconda).

Comunque, rieccomi.

E una delle cose che mi piacerebbe fare è segnalarvi qualche libro che, per qualche ragione, voglio che trovi uno spazio qui dento. E, di quel libro, riporterò soltanto il titolo e l’autore e alcune citazioni che ho sottolineato mentre lo leggevo. A voi giudicare se valga la pena comprarvelo e leggervelo.

Il primo di questi piccoli esperimenti sta qui

Una storia che andava raccontata

Eccomi

Alberto, Chiara e i loro tre figli, cari amici, hanno vissuto una storia che valeva la pena di essere raccontata.

Alberto lo ha fatto e ne è uscito un bel libro.
Malattia, grave.
Coronavirus, fino ad arrivare là, sul bordo.
E poi, inaspettata, la guarigione.

A ben vedere, se lo si vuole leggere ad un livello un po’ diverso, il libro di protagonisti ne ha tanti, tanti di più.

E, forse, in un senso ancora più bello, il protagonista vero è Uno.

Qui è dove potere sapere di più di questa storia.

 

Ritorna alla fine del mondo

Ho scritto qui della morte di due scrittori: Gabriel García Marquez e Antonio Tabucchi.
È stato, credo, anche un modo per pagare un pezzo di debito.
Addesso, Luis Sepúlveda.
Il debito a occhio mi sembra un po’ meno cospicuo rispetto agli altri due, forse anche perché lui è arrivato molto più tardi nella mia vita, quando cerchi di creartene meno, di debiti, e di stare, almeno un po’, dalla parte di chi dà.
È altrettanto esatto, però. Anche questo legato ad una sensazione: quella del viaggio che sarebbe tanto bello fare, ma che non farò mai e che anche se lo facessi, tanto, non sarebbe quella roba lì.
Perché sempre turista sono, non viaggiatore.
Destinazione, non serve dirlo, Patagonia.

E allora, solo un brano di Patagonia Express

Ricordo tutto questo mentre aspetto seduto su una botte di vino, davanti al mare, in un porto del sud del mondo, e prendo appunti su un taccuino con i fogli a quadretti che Bruce mi regalò proprio per questo viaggio. Non si tratta di un taccuino qualunque. È un pezzo da museo, un’autentica “moleskine”, apprezzatissima da scrittori come Céline o Hemingway, che ormai non si trova più nelle cartolerie. Bruce mi suggerì di fare come lui prima di usarla: numerare i fogli, annotare sul retro di copertina almeno due indirizzi nel mondo, e scrivere sulla prima pagina una promessa di ricompensa a chi restituirà il taccuino in caso di smarrimento. Quando sentii quel rituale, commentai che mi sembrava troppo inglese, e Bruce ribatté che proprio grazie a quel genere di precauzioni, gli inglesi conservavano ancor oggi l’illusione di essere un impero; il nome dell’Inghilterra era scritto molto accuratamente nelle loro colonie, e quando le persero, in cambio di una piccola ricompensa economica, le recuperarono come parte del Commonwealth. I suoi argomenti mi convinsero e seguii le sue indicazioni.

Per dire, la differenza tra turista e viaggiatore.

Oggi ho scoperto che, quando si potrà, la moglie riporterà le ceneri dello scrittore proprio là. Se, oltre alle ceneri, di noi umani rimane qualcos’altro, sicuro, è già là.

Pensare il dopo

Andrea Fontana sottolinea da giorni la necessità di una narrazione del dopo, quando, tra qualche mese, l’emergenza sarà finita.
Paolo Giordano e Luca Sofri, più modestamente, chiedono che qualcuno almeno pensi e racconti quale sarà il percorso che ci porterà verso il dopo, quello che intraprenderemo, auspicabilmente, tra qualche settimana.

Ho il sospetto che questi ultimi anni ci abbiano consegnato una classe politica incapace di comunicare il progetto, talmente accartocciata (come ho scritto tante volte qui) sul comunicare il nemico da aver perso i paradigmi fondamentali di come si costruisce una visione comune, di come si aggrega una collettività per qualcosa e non contro qualcuno.

Non mi piacciono le metafore e le similitudini belliche usate in questi giorni, descrivono in maniera molto parziale ciò che stiamo vivendo.
Il virus non è un avversario con una volontà e non ha, di per sé, neppure l’obiettivo di annientare l’organismo attaccato, la cui morte porta alla morte del virus stesso, per dire solo due differenze fondamentali.

Mi è piaciuto, anche se non mi trova sempre d’accordo nei contenuti, il tentativo fatto da Simone Perotti di mostrare un altro punto di vista, a partire dalla sua critica a #milanononsiferma, fino alla ricerca degli effetti collaterali positivi non solo come magra consolazione, ma come metodo d’indagine della realtà:

Insomma, effetti collaterali. Che sono sempre interessanti, sono il backstage della realtà. Ci raccontano sempre molto di noi, delle cose di cui ci danniamo, e forse delle nostre coscienze non sempre cristalline nel giudizio sulla vita.

Servirebbe, mi sembra, ora, ma soprattutto servirà dopo, una capacità di comunicare la complessità del nostro vivere e, in un certo senso, anche la sua fragilità.
Partendo da alcune cornici:

  • chi spaccia soluzioni semplici, pozioni magiche infiocchettate con uno slogan, a problemi complessi o non ha idea di che cosa stia parlando o, più probabilmente, sta provando a fregarci;
  • non esiste al mondo qualcuno che abbia tutte le risposte in tasca, né per questo né per gli altri problemi che saranno l’agenda dei prossimi anni (migrazioni, ambiente, stagnazione economica, dinamiche demografiche). Non sarà l’uomo forte, ma neppure quello intelligente. Sarà solo l’unione di pensieri e prospettive e la ricerca faticosa della sintesi, probabilmente fatta anche di errori inevitabili e della capacità di ammetterli. Questo dovrebbe essere il dibattito politico in una comunità sana;
  • la fragilità è una componente ineliminabile del nostro esistere. Dovremo affrontare altre crisi, illudere del contrario non serve;
  • ci sono cose che non stanno insieme, averle entrambe è impossibile, prometterle entrambe è disonesto. Si chiamano trade-off;
  • la comunicazione politica deve, in qualche modo, contribuire anche a educare a tutto questo. Non può più accontentarsi di coagulare consenso.

Mi domando, però, se la vogliamo davvero una comunicazione così.
E se non siamo noi i primi a desiderarlo, l’uomo della provvidenza, quello che

  • tranquilli, ci sono qua io
  • non è colpa nostra
  • non costa nulla

Quello che tranquilli, il nemico è lui, noi siamo i buoni.

La fede, oggi

Venerdì sera mi sono unito alla preghiera di Papa Francesco davanti al Crocifisso di San Marcello ed all’immagine della Salus Populi Romani. Vivo in un’area colpita duramente. Qui le statistiche sono storie di persone conosciute che, quando ricominceremo ad uscire, non incontreremo più per strada.

Come ho già scritto mi sento figlio di quella Chiesa che con Francesco si è inginocchiata a chiedere la fine di tutto questo.

C’è una domanda, però, che non ho potuto eludere in questi giorni: qual è la differenza tra il gesto dell’inginocchiarsi e chiedere aiuto a Dio e quello del rifugiarsi nelle spiegazioni semplici, consolatorie, false ma tanto lineari da darci l’illusione che sì, questa cosa una spiegazione e una soluzione ce le ha (il virus creato in un laboratorio, il grande complotto cinese, quello americano, la vitamina C)?
Non è lo stesso modello mentale per cui, non potendo contenere in noi la complessità, il disagio e per qualcuno il dolore di quanto ci sta accadendo, ci si àncora a qualsiasi scoglio pur di trovare un riparo dalle onde?

Questa mattina leggevo un libro che non c’entra nulla, ma che mi ha regalato un pezzetto di risposta.
Sta in una frase del teologo protestante Paul Tillich:

L’opposto della fede non è il dubbio, ma la certezza

 

Le certezze degli intelligenti

The fundamental cause of the trouble is that in the modern world the stupid are cocksure while the intelligent are full of doubt.

Bertrand Russell

Quest’idea secondo cui la causa di molti problemi è che gli stupidi sono fin troppo sicuri di sé, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi, mi si è appiccicata addosso diventando adulto.
Aiuta specialmente se sei pieno di dubbi, evidentemente.
Ma credo di essere sincero quando dico che non è questo il motivo. Con il lavoro che faccio sono in contatto quotidiano con l’intelligenza, quella vera. A volte con il genio. E questo da un lato ti regala il realismo di collocarti nella categoria degli stupidi, dall’altro ti rende grato di poter ogni giorno conversare con l’intelligenza.
Piuttosto, mi sembra una di quelle idee che spiegano bene un tratto del mondo in cui vivo: il suo essere complesso, multiforme.

Ecco perché sono un paio di giorni che penso a questa lettera aperta di Mauro Berruto al governo giallo-verde.
Mauro lo conosco ed è indubitabilmente (fidatevi) uno molto intelligente.
Nel suo scritto non c’è ombra di dubbio. Non nell’analisi (basta leggere le prime quattro righe), e neppure nelle conclusioni (“Sarete spazzati via dalla storia, questo è certo”).

Adesso, magari, ci si aspetta che dica quello che penso di ciò che ha scritto.
Se serve, dico che sì, penso moltissime di quelle cose lì.
Magari con qualche distinguo… dettagli.
Ma non è questo il punto.

Il fatto è che per me la cosa più allarmante è vedere gli intelligenti dovere (e volere) essere sicuri.
Mi sembra un brutto segnale, anche quando hanno ragione.

Un’indagine

Un breve racconto: tre momenti e l’incrocio di tre vite.
Spero vi regali qualche minuto piacevole.

Per leggerlo potete scaricare il file, nel formato che preferite (nel dubbio, scaricate il .pdf), oppure scorrere direttamente il testo da questo post.

Come sempre, alla fine, lo spazio per commenti, se ce ne sono, e per critiche.


Un’indagine

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Un’indagine

I

Agosto 2004

Don Gabriele,
le scrivo perché me ne vado. In cerca di fortuna, direbbe lei, con un tono che sottintende che la fortuna è vivere qui, e che la gratitudine suggerirebbe di rimanerci. In realtà, non cerco nulla. Ci sono partenze che sono fughe, Don Gabriele. Questo credo lo possa capire.
Ho voluto avvisarla per tempo, così che trovi il modo per insegnare a qualcun altro a portare la croce nella processione del venerdì santo. Non è per niente facile tenere su quei venti chili. Se lo ricorda quando mi ha detto che la croce, alla fine della quaresima, l’avrei portata io?
Passai ore ad allenare la forza e l’equilibrio: non volevo farmi cogliere di sorpresa dal peso del legno e da quello ancora più gravoso di essere chi sta davanti, in processione, e che quindi tutti lo vedono e lui non vede nessuno. Cominciai in chiesa, da solo. Alzare e abbassare: è da lì che si misura il portatore, se riesce in quei movimenti a conservare solennità, senza che il peso, il timore o la trascuratezza alterino la gradualità della partenza e la fermezza dell’arrivo. Poi, passata la prima fase di esercizio nascosto, uscii all’aperto: bisognava sentire il vento scuotere il legno e misurarne l’effetto sul drappo che copre la croce e che lei avrebbe levato pezzo a pezzo, durante le tappe della processione: Ecce lignum Crucis, in quo salus mundi pependit. Ecco il legno della croce da cui dipende la salvezza del mondo.
Uscii sul sagrato e il vento fece vibrare il legno tra le mie mani: mi parve di sentirlo riscaldarsi nel confronto che gli imponevo con la natura di cui era stato parte. Era chiara, in quel momento, la differenza tra il legno delle betulle che crescono sul sagrato e i due pezzi di larice che tenevo tra le mani, innestati a perpendicolo. Anche le betulle paiono opporsi al vento, ma in realtà sanno di essere parte del medesimo disegno. Non resistono, loro. Si lasciano aggirare: sanno che né loro né il vento decideranno quale sarà la raffica che, un giorno, le abbatterà.
Continua a leggere

Sul credere

Provo ad essere cristiano.
Cattolico, a voler aggiungere un aggettivo che non so se serva davvero (sento, però, forte l’appartenenza a questa Chiesa: mi ha cresciuto).
Non mi è facile spiegarne le ragioni, e credo non sia neppure il luogo per farlo.
C’è un pezzo di questa spiegazione, però, che mi piace condividere, perché ha a che vedere con il pensiero di un uomo che considero, da sempre, un maestro (e uno dei giganti del ‘900): il Cardinale Carlo Maria Martini.
C’è una fondazione che porta il suo nome e che sta pubblicando la sua opera omnia (l’editore è Bompiani). Il primo volume è stato Le cattedre dei non credenti ed è la trascrizione integrale di tutte le dodici cattedre, svoltesi a Milano dal 1987 al 2002.
Per chi non lo sapesse, questi momenti di confronto sono nati dall’idea di Martini di creare occasioni per favorire uno scambio fecondo tra credenti e non credenti, partendo da una sorta di ribaltamento dei ruoli per cui l’arcivescovo poneva “in cattedra” alcuni non credenti, per farsi interrogare dal loro pensiero.
Per capire la portata di questa idea, bisogna ricordare che la tradizione cristiana fa della “cattedra” il luogo proprio del vescovo e del suo magistero. Offrire questa posizione a non credenti, a suo tempo, ha suscitato anche qualche polemica.

Proprio nell’introduzione alla prima cattedra Martini ha pronunciato alcune parole che sono la sintesi più bella di uno dei pilastri del suo pensiero, quello che forse più di tutti mi ha influenzato.
Che si parli di fede, di politica, o di idee, infatti, mi sembra ci sia un gran bisogno (o, almeno, io lo sento per me) di dare un senso più profondo al verbo credere.

Eccole, quelle parole (il grassetto è mio):

Io ritengo – ed è l’ipotesi di partenza – che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, si interrogano a vicenda, si rimandano continuamente interrogazioni pungenti e inquietanti l’uno all’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa. L’appropriazione di questo dialogo interiore è importante. Mediante esso ciascuno cresce nella coscienza di sé; la chiarezza e la sincerità di tale dialogo mi paiono sintomo di raggiunta maturità umana. Mi sembra, dunque, opportuno e utile che i credenti erigano simbolicamente dentro di loro una cattedra, dove il non credente possa avere parola ed essere ascoltato; viceversa, chi non crede possa dare voce e ascolto al credente. Se, oltre a farlo ciascuno in se stesso, lo facciamo anche aiutandoci reciprocamente, potrebbe emergere un cammino molto utile.

Carlo Maria Martini. Le cattedre dei non credenti (Opere Carlo Maria Martini Vol. 1), Bompiani.

Mindulness da doccia

Ieri mattina, sotto la doccia, ho pensato che, per stare meglio, dovrei praticare di più la mindfulness.
Poi, però, ho pensato che la pratica dovrebbe essere senza intenzione, e quindi senza un obiettivo.
E ho pensato anche che pensare che dovrò in futuro praticare è una contraddizione in termini, visto che l’attenzione del praticante dovrebbe essere rivolta al momento presente.
Quindi, ho pensato che su questo flusso di pensieri avrei anche potuto scriverci un post.

Nel frattempo, avevo terminato la doccia.

Allora mi sono chiesto se pensare che avrei praticato più tardi fosse procrastinazione.

Pessoa: uno che ti cambia il modo di leggere

Qualche riga su una delle mie letture di quest’estate:  “Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares” di Fernando Pessoa.
Per fortuna a definirlo ci ha pensato Antonio Tabucchi, perché io proprio non avrei saputo come fare: una “autobiografia senza fatti di un personaggio inesistente”.
È un libro per nulla facile, in molti dei significati che questo aggettivo può assumere.
Una cosa, però, l’ho capita: Pessoa è uno che ti cambia il modo di leggere.
Non solo lui. Ma lui senz’altro.
E allora vorrei, adesso che sono arrivato alla fine, cercare di raccontarla, questa esperienza, (anche, e forse soprattutto, per chiarirla a me stesso).

All’inizio mi sono messo di buzzo buono: cercare di comprendere ogni pagina e seguire il filo dei pensieri di Soares/Pessoa, mettendoli uno dietro l’altro fino ad arrivare ad un qualche bandolo.
Dopo qualche decina di pagine ho realizzato che non ce l’avrei fatta, a meno di volerci dedicare i prossimi anni. Non dico che non ne sarebbe valsa la pena, ma avrei altri programmi.
Così ho cambiato sguardo. Mi sono lasciato cullare dai ragionamenti, cercando di isolare quelli che sentivo più miei per approfondirli: ritornarci su, rileggere, magari prendere qualche appunto. Scegliere fior da fiore, insomma.
Nemmeno questo, però, sembrava funzionare.
Confesso che stavo per abbandonare, quando sono caduto su questo frammento:

Di solito attribuiamo alla nostra idea dell’ignoto il colore delle nostre nozioni del noto. Se la morte la definiamo un sonno, è perché essa ci sembra un sonno dal di fuori; se chiamiamo la morte una nuova vita è perché ci sembra una cosa diversa dalla vita. Attraverso piccoli malintesi nei confronti del reale noi costruiamo le fedi e le speranze, e così ci nutriamo di croste che chiamiamo dolci, come i bambini poveri che giocano ad essere felici.

A dire il vero stavo scorrendo distrattamente. È stata l’ultima frase a fulminarmi: come i bambini poveri che giocano ad essere felici.
Non è solo la frase di per sé. È il modo con cui ci ho cozzato contro (è il modo con cui Pessoa ha voluto che ci cozzassi contro).
Questo, se si capisce, è il cambiamento nel modo di leggere che mi ha regalato questo libro. Da quel punto in avanti, ho proseguito così: un po’ come stare su una barchetta e galleggiare, una mano immersa nell’acqua, cullato nell’attesa (che non è un’attesa) di sentire qualcosa che ti sfiora il palmo, e raccoglierlo. Così. Senza scelta.

Ne ho trovati molti altri, nelle pagine seguenti, di questi oggetti.
Eccone uno, che ha sempre a che fare con la felicità:

Dopotutto ogni cosa ci viene data in relazione a ciò che diamo. Un piccolo incidente stradale che richiama sulla porta il cuoco di questa trattoria riesce a intrattenerlo più di quanto non mi intrattenga la contemplazione di una originalissima idea, la lettura del miglior libro, il più grato dei sogni inutili. E, se la vita è essenzialmente monotonia, in realtà quell’uomo è scampato alla monotonia più di me. E continua a sfuggire alla monotonia più facilmente di me. La verità non è sua e non è mia perché la verità non è di nessuno; ma la felicità è sicuramente sua.
Il saggio è colui che riesce a rendere monotona l’esistenza, poiché allora ogni piccolo incidente possiede il privilegio di stupirlo. Il cacciatore di leoni non prova più l’avventura dopo il terzo leone. Per questo cuoco monotono, una rissa nella strada ha sempre qualcosa di una modesta apocalisse. Chi non ha mai lasciato Lisbona farà un viaggio infinito sul treno che va a Benfica, e se costui un giorno si reca a Sintra ha la sensazione di avere fatto un viaggio fino a Marte. Il viaggiatore che ha percorso il globo, dopo cinquemila miglia non trova novità, trova soltanto delle cose nuove; un’altra volta la novità, la vecchiaia dell’eterno nuovo, ma il concetto astratto di novità è rimasto in mare con la seconda di esse.”

Per inciso, “La vecchiaia dell’eterno nuovo” potrebbe essere il titolo di un saggio sulla contemporaneità.

Un’ultima nota.
Mi sto godendo qualche giorno di vacanza.
Lo scorso lunedì mattina, sul presto, una passeggiata al lago. Solo io, il guinzaglio, e Belle attaccata dall’altra parte.
Una giornata limpida, la prospettiva di passarla senza impegni. Una forma di felicità.
Beh, mi sono chiesto se fossi felice, o piuttosto se stessi giocando ad esserlo, come i bambini poveri.
Per un secondo, vi assicuro, mi sono sentito dall’altra parte del guinzaglio.
Accidenti a Pessoa.
Fortuna che è durato solo un attimo…