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Patrimonio artistico e attrattività: un esempio di U invertita?

In questo post per MySolutionPost ho parlato dei fenomeni che sono tra loro in relazione con curve ad U invertita.
Si tratta di quei fenomeni che, invece che essere in rapporto secondo andamenti lineari (al crescere di un fenomeno cresce proporzionalmente anche l’altro) o con andamenti con utilità marginale decrescente (al crescere di un fenomeno cresce anche l’altro, ma con un andamento sempre più piatto, fino a che la crescita marginale è praticamente nulla), sono in relazione tra loro con andamenti a U invertita (così, tanto per capirci: ∩)

In questo caso, la relazione tra le variabili è lineare fino ad un certo punto (al crescere della prima variabile cresce proporzionalmente la seconda), quindi la curva tende ad appiattirsi (rendimenti marginali decrescenti), fino a diventare completamente piatta (rendimenti marginali nulli), e, poi, addirittura negativa. Questo significa che, da un certo punto in avanti, la relazione si inverte e il crescere di una delle variabili porta ad una diminuzione della seconda.

In questi giorni (come succede in alcuni periodi dell’anno) sto viaggiando parecchio su e giù per l’Italia. Coincidenze fortunatamente non troppo strette o “buchi” nell’agenda mi permettono (meno di quanto mi piacerebbe) di godere di alcune delle bellezze dei luoghi che visito. Ogni volta mi trovo a considerare quanto il nostro Paese sia ricco di piccoli capolavori nascosti, di quanto ogni regione (anche le meno conosciute) potrebbe tranquillamente rivaleggiare con molte delle nazioni del mondo. E il pensiero successivo è, naturalmente, rivolto a quanto noi italiani non sappiamo far fruttare un patrimonio così vasto (detto che non credo a certe stime mirabolanti per cui l’Italia ospiterebbe quasi la metà del patrimonio artistico mondiale, ma questo è tutt’altro capitolo).

Mi è venuto da pensare, allora, che la relazione tra quantità di patrimonio artistico posseduto e “attrattività” di un luogo (o, come in questo caso, di una nazione) potrebbe essere una curva ad U invertita: fino a un certo punto le due variabili sono in una relazione positiva. Superato però un punto critico la relazione diventerebbe addirittura negativa. Detto in un altro modo, avere più patrimonio artistico è un vantaggio dal punto di vista dell’attrattività, ma solo fino a un certo punto. Oltrepassato quel punto diventa uno svantaggio.

Perché?

Mi vengono in mente alcuni motivi, ma potrebbero essercene altri:

1) conservare un patrimonio artistico e renderlo fruibile non è facile. È necessario investire risorse (denaro, ma non solo). Un patrimonio troppo rilevante potrebbe condurre a disperdere eccessivamente gli sforzi, e a non portare, alla fine, a casa nulla;

2) comunicare un patrimonio artistico implica, come ogni operazione di comunicazione, delle scelte e delle priorità. Un’eccessiva ricchezza di luoghi e capolavori non consente di fornire un’immagine unitaria alla proposta e, cercando di colpire troppi target, si finisce per non arrivare a nessuno;

3) un patrimonio disperso su territori diversi porta ad una sorta di “competizione interna”, che indebolisce nella competizione verso l’esterno. Molti territori in concorrenza tra loro non possono esprimere una strategia unitaria. I tentativi fatti negli ultimi anni in questo senso mi sono parsi piuttosto goffi.

Insomma, per noi che ci viviamo crescere immersi in tanta bellezza non può che essere una fortuna.
Forse, per altri obiettivi, sarebbe meglio se ce ne fosse un po’ meno…

 

 

Di arte e sofferenza

In questi giorni mi è finita sotto agli occhi questa citazione di Georges Simenon:

La scrittura è considerata una professione: ma io penso che non lo sia. È una vocazione all’infelicità. Perché se un uomo ha l’impulso di fare l’artista è per il bisogno di trovare se stesso. Attraverso i suoi personaggi, attraverso tutto ciò che scrive.

Mi ha ricordato una cosa che mi è stata detta quest’estate, da una poetessa di cui ho grande stima:

Non può esistere arte senza sofferenza. Tutta la vera arte è figlia della sofferenza.

Non sono un artista. Forse proprio per questo il nesso stretto tra arte e sofferenza mi sfugge, e, a dirla tutta, mi lascia perplesso.

In questi giorni, come ho già scritto nei commenti al post precedente, ho ripreso la lettura di un autore che, forse più di ogni altro, mi ha influenzato in alcuni anni decisivi per la mia formazione: Erich Fromm.
Nel capitolo iniziale de L’arte di amare, scrive:

Il primo passo è di convincersi che l’amore è un’arte così come la vita è un’arte: se vogliamo sapere come amare dobbiamo procedere allo stesso modo come se volessimo imparare qualsiasi altra arte, come la musica, la pittura, oppure la medicina o l’ingegneria.
Quali sono i passi necessari ad imparare un’arte? Possiamo dividerne il processo in due parti: teoria e pratica.
Per l’arte della medicina, prima devo conoscere il corpo umano e la patologia. In possesso di questa conoscenza teorica, posso diventare un maestro solo dopo una gran pratica, finché i risultati della mia scienza e i risultati della pratica non siano fusi in uno: il mio intuito, l’essenza della padronanza di qualsiasi arte. Ma, oltre a conoscere teoria e pratica, c’è un terzo fattore necessario per diventare maestro in qualunque arte: non deve esserci al mondo niente di più importante. Questo vale per la musica, per la medicina, per l’amore.

Mi stimola, in particolare, quest’ultimo concetto. Non deve esserci al mondo niente di più importante.

Probabilmente sto per scrivere una bestialità, ma a mio modo di vedere (e per la conoscenza che ho di alcuni artisti, peraltro anche molto dotati), il punto sta non tanto nella sofferenza come veicolo in sè per l’espressione artistica. Il punto è questo senso di priorità della propria arte rispetto al resto dell’esperienza.
Certo, la sofferenza (specie dopo il bagno del pensiero occidentale nel Romanticismo) è uno dei veicoli, forse il più visibile, verso questo rapporto incondizionato con la propria arte. Uno, non l’unico. E, soprattutto, veicolo. Non fine.
Simenon la chiama vocazione all’infelicità. Mi viene quasi da tradurla in vocazione all’insoddisfazione.

Ma, forse, tra voi c’è qualcuno che, al contrario di me, può dare del tu a una qualche arte.
In questo caso, mi piacerebbe davvero un contributo.

Sperimentalismo, avanguardia, o che cosa?

Ieri ho passato mezza giornata al MART (Museo di arti moderna e contemporanea), a Rovereto.
Un po’ di tempo ad osservare le opere, un po’ le facce di chi osservava le opere.

A un certo punto, mi è tornato in mente Umberto Eco, con la sua distinzione tra sperimentalismo e avanguardia:

L’avanguardia agita una poetica, rinunciando per amor suo alle opere, e produce piuttosto manifesti, mentre lo sperimentalismo produce l’opera e solo da essa estrae o permette poi che si estragga una poetica. Lo sperimentalismo tende a una provocazione interna al circuito dell’intertestualità, l’avanguardia a una provocazione esterna, nel corpo sociale. Quando Piero Manzoni produceva una tela bianca faceva sperimentalismo, quando vendeva ai musei una scatoletta con merda d’artista faceva della provocazione avanguardista.
(Il gruppo 63 quarant’anni dopo, in Costruire il nemico)

Ora, di fronte ad alcune delle opere, mi sono detto che non ho capito bene se l’autore volesse fare sperimentalismo, avanguardia, o che altro.

Resta il fatto che, qualunque fosse la strada che stava percorrendo, i casi sono due: o l’ha percorsa troppo velocemente per le mie capacità (ma anche, a giudicare dalle facce, per le capacità di qualcun altro), oppure, qui, qualcuno sta davvero esagerando…

L’emozione e la regola

Da un’intervista di Daniela Ovadia a Jean-Pierre Changeux (Mente e Cervello, numero di Febbraio):

Per tornare alla sua concezione dell’arte in chiave cognitiva, possiamo dire che non è arte ciò che non suscita emozioni?

La risposta:

Guardi, una volta ho citato al direttore d’orchestra Pierre Boulez una frase del pittore e scultore George Braque, che ha detto: “Amo la regola che corregge l’emozione”. Al che Boulez mi ha risposto: “Amo l’emozione che corregge la regola”.
Ho trovato tutto ciò estremamente significativo: perché non c’è arte senza forma, ma nemmeno senza emozione, e l’una e l’altra si trovano a competere per dar luogo al prodotto finale, in un rapporto che, a seconda dell’artista, può pendere di più da una parte o dall’altra.

Mi è sembrata una sintesi molto bella e, in qualche modo, fulminante.