Articoli

Sui muri e sulla pulsione securitaria. Quindi, sulla rielezione di Trump.

Come fare a non commentarla? Sì, lei: la rielezione di Donald Trump.

Del resto, quale migliore occasione per esercitare un po’ di razionalità a posteriori farcita di qualche “l’avevo detto io”?
Come sapete, sono un politologo di formazione, ma da molti anni non mi occupo più di analizzare in dettaglio il potere politico: ho spostato la mia attenzione sulle dinamiche di potere nelle organizzazioni.
Le cose che dico, quindi, sono il frutto un po’ dei miei studi e un po’ di alcuni pensieri scambiati in questi giorni.

Li sintetizzo in due idee.
La prima è una cosa di cui parlo da un po’, la seconda è una cosa più recente, che la campagna elettorale e i suoi risultati hanno contribuito ad addensare e solidificare.

Uno

La lotta politica, almeno da una ventina d’anni a questa parte, è passata dall’essere uno scontro tra ideologie all’essere uno scontro tra narrazioni. Non mi è chiaro se questo sia avvenuto a causa del cambio dei media, oppure se il messaggio avrebbe seguito comunque questa traiettoria. Fatto sta che è avvenuto.

In questo non vedo differenze sostanziali tra gli schieramenti politici. Barak Obama, per dirne uno, ha interpretato perfettamente questo spostamento.
E se la priorità è dare in pasto personaggi, trame e sfide, allora è quasi naturale la personalizzazione della leadership politica.
Un’ideologia vive in chi la propone.
Una narrazione è chi la propone.

Due

Le sole narrazioni in grado di addensare consenso diffuso di questi tempi sembrano essere quelle basate sulla logica del nemico. Ne ho parlato ampiamente anche in Fate pace con il potere: l’impalcatura del consenso si regge su un messaggio forte veicolato dal leader: all’esterno del gruppo c’è un nemico pericoloso (o anche più di uno) e la priorità assoluta è la difesa dei valori, degli interessi, dei bisogni del gruppo dalla minaccia che esso rappresenta.
Se dovessi dare a queste narrazioni un’etichetta, sarebbe: narrazioni fondate sulla protezione, dove quest’ultimo termine può trovare le più diverse declinazioni.
L’avversario politico come minimo non è in grado di proteggere dal nemico, più spesso è in combutta con quest’ultimo.
Con un elemento distintivo, però, rispetto all’uso della logica del nemico in altri momenti storici: il pericolo rappresentato dalla presenza dei nemici non si traduce in una “chiamata alle armi”. Il solo momento di partecipazione alla lotta al nemico richiesto al cittadino-elettore è, appunto, quello del voto. Una volta eletto, è il leader che si assume l’incarico di costruire i muri (fisici, contro gli immigrati, doganali, contro i concorrenti, legislativi e giudiziari, contro i nemici interni).
Null’altro è richiesto.
Comodo, no?

Per questo (e per alcuni altri motivi che magari spiego in un altro momento) non sono d’accordo con chi invoca come chiave di lettura il fascismo eterno (ur-fascismo) di Umberto Eco. Se i suoi tratti costitutivi si possono ritrovare certamente nella cultura della destra europea e americana più che in quella di altre aree politiche, mi pare proprio servano a poco nello spiegarne il successo elettorale.

A me pare, invece, che il tutto si spieghi con il fatto che i messaggi (e, spesso, i leader) della destra appaiono più credibili nel proporsi come difensori e baluardi. In questo senso, davvero, non ho mai capito chi si domanda come una donna possa votare per Trump. Lo trova, semplicemente, una difesa più credibile. L’obiettivo è di soddisfare quella che Massimo Recalcati definirebbe “la tentazione del muro” (il titolo di un suo bellissimo saggio) e che io adatterei nella “esigenza del muro”. Lo stesso Recalcati, infatti, sottolinea:

Non bisogna dunque liquidare la spinta dell’uomo a difendere i confini della propria vita individuale e collettiva come una spinta in sé barbara o incivile. È un’indicazione che viene da Freud stesso: la vita individuale, come quella collettiva, necessita di protezione, di rassicurazione, edifica barriere per poter sopportare l’avversità del mondo. Gli esseri umani hanno da sempre protetto la loro esistenza; dalla potenza inumana della natura e dalla minaccia dei nemici. La spinta a delimitare il proprio territorio è un’espressione del carattere primariamente securitario della pulsione. Il gesto di tracciare il confine è un’operazione necessaria alla sopravvivenza della vita. La vita ricerca primordialmente il rifugio dalla vita e, al tempo stesso, la definizione di confini in grado di circoscrivere la propria identità.
[…] Senza radici e senza confini verrebbe infatti meno il sentimento stesso dell’identità di un soggetto individuale come di un soggetto collettivo, dell’Io come di un popolo. Non a caso nell’esperienza clinica l’assenza di confine definisce la vita schizofrenica: vita radicalmente smarrita, errabonda, disgregata, frammentata.
Tuttavia l’esistenza umana non è solamente desiderio di appartenenza e di rassicurazione, ma è anche spinta all’erranza, desiderio di libertà.

E da qui sviluppa proprio questa dinamica tra esigenza del confine e aspirazione alla libertà.

Rimangono, mi pare, due fatti.
Il primo: dal punto di vista della comunicazione politica, almeno in questo momento, soddisfare quella che Recalcati stesso definisce la pulsione securitaria sembra funzionare molto meglio di qualsiasi messaggio che faccia leva sull’aspirazione alla libertà.
Il secondo: declassare la pulsione securitaria a istinto ancestrale (ho letto di uomini del pleistocene…) non solo non funziona. Non è neppure giusto. Perché tracciare confini è un gesto che non è puro istinto: è definizione di identità individuale e collettiva.
La dico con le parole Alessandro Baricco:

L’idea di confine è una delle grandi conquiste degli umani sia dal punto di vista geopolitico (moltissime persone sono morte per difendere un confine, ancora mio nonno ha rischiato di morire per difendere un confine nel suo senso proprio più tecnico e più semplice, cioè il confine della sua patria e oggi lo fanno ancora in molti, nel mondo) ma è stata una conquista soprattutto psicologica. […] Mentre edifichiamo ponti, bisogna sempre ricordare che l’idea stessa di confine rappresenta per gli umani una conquista psicologica che è costata un sacco di tempo e un sacco di intelligenza. L’idea di confine, rassegnatevi, coincide con l’idea di identità. Senza confini è molto difficile avere un’identità.
(intervento alla quarta giornata interculturale Bicocca, maggio 2016)

Piuttosto, se si vuole costruire una contro-narrazione che abbia qualche speranza di fare breccia, bisogna ripensare profondamente questa dinamica tra confine e libertà.
Che non è come dirlo.
Conto, davvero, di approfondire.

 

Il lato oscuro del consenso

Su Econopoly, un mio contributo sul tema della dinamica consenso / conformismo. È il terzo post che dedico a definire le principali dinamiche della relazione tra team manager e gruppo.

Nei primi due:

  • qui ho cercato di dare una definizione del potere come una tipologia di relazione pervasiva all’interno delle organizzazioni e ne ho discusso le diverse forme (potere coercitivo, potere economico, leadership)
  • qui, invece, ho approfondito il tema della leadership. Ho definito, quindi, la leadership come “una forma di potere basata su uno scambio di beni simbolici, la cui misura è determinata dal consenso”.

Ancora una volta, vi chiedo i vostri commenti. Potete lasciarli direttamente qui sotto.

Il link su Econopoly è questo

Su Econopoly

Inizio oggi una collaborazione di cui vado molto orgoglioso e che mi rende felice.
Ho scritto, infatti, il mio primo post per Econopoly, blog de “Il Sole 24 Ore“, curato da Alberto Annichiarico. Ho sempre trovato contenuti di qualità e spunti interessanti. Spero davvero di essere all’altezza del resto della squadra.

Il primo contributo è su un tema che mi sta molto a cuore (lo sa chi frequenta questo blog): la costruzione del consenso nei gruppi, nelle organizzazioni ed in politica. Con qualche considerazione anche sulle dinamiche di gestione del consenso che abbiamo visto in azione in questi giorni difficili.

Se l’argomento vi interessa, il post è qui.

Grazie ad Alberto per l’ospitalità e ad Andrea Panato per la sua non comune capacità di generare sinergie.

Pensare il dopo

Andrea Fontana sottolinea da giorni la necessità di una narrazione del dopo, quando, tra qualche mese, l’emergenza sarà finita.
Paolo Giordano e Luca Sofri, più modestamente, chiedono che qualcuno almeno pensi e racconti quale sarà il percorso che ci porterà verso il dopo, quello che intraprenderemo, auspicabilmente, tra qualche settimana.

Ho il sospetto che questi ultimi anni ci abbiano consegnato una classe politica incapace di comunicare il progetto, talmente accartocciata (come ho scritto tante volte qui) sul comunicare il nemico da aver perso i paradigmi fondamentali di come si costruisce una visione comune, di come si aggrega una collettività per qualcosa e non contro qualcuno.

Non mi piacciono le metafore e le similitudini belliche usate in questi giorni, descrivono in maniera molto parziale ciò che stiamo vivendo.
Il virus non è un avversario con una volontà e non ha, di per sé, neppure l’obiettivo di annientare l’organismo attaccato, la cui morte porta alla morte del virus stesso, per dire solo due differenze fondamentali.

Mi è piaciuto, anche se non mi trova sempre d’accordo nei contenuti, il tentativo fatto da Simone Perotti di mostrare un altro punto di vista, a partire dalla sua critica a #milanononsiferma, fino alla ricerca degli effetti collaterali positivi non solo come magra consolazione, ma come metodo d’indagine della realtà:

Insomma, effetti collaterali. Che sono sempre interessanti, sono il backstage della realtà. Ci raccontano sempre molto di noi, delle cose di cui ci danniamo, e forse delle nostre coscienze non sempre cristalline nel giudizio sulla vita.

Servirebbe, mi sembra, ora, ma soprattutto servirà dopo, una capacità di comunicare la complessità del nostro vivere e, in un certo senso, anche la sua fragilità.
Partendo da alcune cornici:

  • chi spaccia soluzioni semplici, pozioni magiche infiocchettate con uno slogan, a problemi complessi o non ha idea di che cosa stia parlando o, più probabilmente, sta provando a fregarci;
  • non esiste al mondo qualcuno che abbia tutte le risposte in tasca, né per questo né per gli altri problemi che saranno l’agenda dei prossimi anni (migrazioni, ambiente, stagnazione economica, dinamiche demografiche). Non sarà l’uomo forte, ma neppure quello intelligente. Sarà solo l’unione di pensieri e prospettive e la ricerca faticosa della sintesi, probabilmente fatta anche di errori inevitabili e della capacità di ammetterli. Questo dovrebbe essere il dibattito politico in una comunità sana;
  • la fragilità è una componente ineliminabile del nostro esistere. Dovremo affrontare altre crisi, illudere del contrario non serve;
  • ci sono cose che non stanno insieme, averle entrambe è impossibile, prometterle entrambe è disonesto. Si chiamano trade-off;
  • la comunicazione politica deve, in qualche modo, contribuire anche a educare a tutto questo. Non può più accontentarsi di coagulare consenso.

Mi domando, però, se la vogliamo davvero una comunicazione così.
E se non siamo noi i primi a desiderarlo, l’uomo della provvidenza, quello che

  • tranquilli, ci sono qua io
  • non è colpa nostra
  • non costa nulla

Quello che tranquilli, il nemico è lui, noi siamo i buoni.

La costruzione del nemico

In questi giorni mi è capitato sotto gli occhi un articolo non recentissimo di Hannes Grassegger per Das Magazin, ripreso e tradotto da Internazionale.
Racconta di come Arthur J. Finkelstein e George Birnbaum abbiano progettato, da consulenti elettorali del presidente ungherese Viktor Orbán, una delle più impressionanti e riuscite operazioni di “creazione di un nemico” che sia dato ricordare.
Mi ha riportato alla memoria quanto scrivevo qualche tempo fa sulle modalità di costruzione del consenso, ed in particolare sulla logica amico-nemico.
Il nemico, in questo caso, è George Soros.
E l’operazione è stata talmente ben congegnata da farne non soltanto l’argomento per la costruzione del consenso attorno a Orbán, ma un vero e proprio simbolo (ed una facile risorsa di consenso) per tutte le destre del mondo da allora in avanti. A prescindere da qualsiasi verità a proposito della vita di colui che, da allora, è diventato semplicemente l’emblema di un complotto mondiale contro popoli e nazioni.

Mi sembra che l’articolo confermi quanto ho scritto sui vantaggi di questa logica di costruzione del consenso:

  • velocità nella creazione e facilità nella comunicazione;
  • forza nel reprimere il dissenso;
  • focus sui comportamenti del nemico più che sui propri e, quindi, non necessità di proporre un vero progetto di sviluppo per il futuro.

La logica amico/nemico si riassume nella formula negative campaigning: focalizzare l’agenda elettorale sugli attacchi al proprio nemico piuttosto che sulla proclamazione dei propri valori e della propria visione del futuro, con un duplice obiettivo: compattare gli elettori della propria parte e dividere quelli della parte avversa.

Si aggiunge, però, un elemento che merita di essere evidenziato. Lo riprendo citando due spezzoni dell’articolo:

Finkelstein aveva trovato in lui [Soros, nota mia] l’avversario ideale. Un Mister Liberal come l’aveva sempre sognato, l’incarnazione di tutte le contraddizioni che i conservatori odiano in quegli esponenti della sinistra che hanno successo economico: uno speculatore finanziario che allo stesso tempo chiede un capitalismo più umano. E la cosa più bella è che l’obiettivo della campagna elettorale non era un esponente politico e neanche una persona che viveva nel paese. “L’avversario perfetto è quello che puoi colpire continuamente senza che lui possa colpirti mai”, sottolinea Birnbaum.

Il grassetto, mio, sottolinea un aspetto interessante: individuare un “nemico” esterno al sistema, non in grado di opporre reazioni dirette. Qualsiasi reazione di Soros alla campagna, infatti, veniva regolarmente, come si descrive nell’articolo, utilizzata ad uso della narrazione del nemico.

A conferma di questo:

L’ultimo passo del metodo era tendere una trappola all’avversario: Finkelstein metteva in giro una notizia falsa, contando sul fatto che l’avversario si sarebbe incastrato da solo cercando di smentirla. Infatti reagendo all’accusa l’avrebbe inevitabilmente legata al suo nome, mentre ignorandola non avrebbe avuto modo di confutarla. Nel migliore dei casi poi la falsa notizia sarebbe stata di per sé così strana o sconvolgente da essere ripresa dai mezzi d’informazione.

Qualunque tipo di risposta a questo attacco viene re-incorniciata, appunto, a vantaggio dell’attaccante.

Detto tutto questo, la cosa che fa più impressione sono le ultime righe dell’articolo:

Finkelstein è morto nell’agosto del 2017. L’Ungheria è stata il suo ultimo progetto. Nel 2011, in uno dei suoi ultimi discorsi pubblici, aveva detto: “Volevo cambiare il mondo. L’ho fatto. L’ho reso peggiore”.

 

Post Scriptum
Riporto anche, dalla parte iniziale dell’articolo, una descrizione del profilo di George Soros

Fino a qualche anno fa Soros era un miliardario la cui critica al capitalismo era tenuta in considerazione perfino al Forum economico mondiale di Davos. Un finanziere che una volta faceva parte delle trenta persone più ricche del mondo, ma che poi ha devoluto buona parte dei suoi miliardi alla Open society foundations, una rete di fondazioni, al terzo posto nella classifica mondiale delle organizzazioni a scopo benefico, subito dopo quella di Bill e Melinda Gates. Ma mentre Bill Gates, il fondatore della Microsoft, cerca di alleviare le sofferenze del mondo, per esempio estirpando la malaria, Soros cerca di migliorarlo con iniziative a sostegno dei migranti. Vuole realizzare l’ideale che il suo filosofo preferito, Karl Popper, contrapponeva al totalitarismo: una società aperta.

Leadership e volontariato

Davvero un bell’evento, quello organizzato dal Distretto 2032 del Rotary Club il 9 marzo scorso a Genova.
Qui sotto trovate il video di tutta la mattinata, con gli interventi, molto interessanti, del Professor Renato Balduzzi, di Remo Gattiglia e di Don Giulio Della Vite.

Per parte mia, ho provato a delineare le specificità dell’esercizio della leadership nel terzo settore. Il mio ragionamento comincia al minuto 56, più o meno.

In estrema sintesi e per punti:

  • se si definisce la leadership come la capacità di creare consenso attorno a idee, progetti, persone, allora, tra i due modi per costruire consenso (la logica amico/nemico e la logica di progetto), nei team di volontari si tende, strutturalmente, a privilegiare il secondo;
  • tra le leve fondamentali per la gestione di un team orientato ad un progetto (la leva del compito e la leva della relazione), si spinge più sulla leva della relazione. (Su questa distinzione ho scritto ampiamente nella prima parte del mio libro: Compito e relazione, appunto)
  • da queste due specificità derivano i due principali rischi e criticità nell’esercizio della leadership nel terzo settore: la resistenza al cambiamento (effetto di un eccesso di attenzione alla relazione rispetto al compito) e la frustrazione (effetto del fatto che una gestione del consenso basata sulla logica di progetto implica la capacità di generare e comunicare progressi verso la meta. Ho introdotto questo tema qui);
  • rimane, poi, il rischio generale di una leadership definita come sopra (che è  poi, anche, uno dei miei “bernoccoli” personali): l’eccesso di conformismo (anche di questo ho scritto qui).

Sotto il video, le slide che ho proiettato.

 

Il lato oscuro del consenso

Proseguo il ragionamento iniziato con il post di qualche giorno fa circa il problema della creazione e gestione del consenso.
Oggi vorrei dedicare qualche riflessione al problema contrario: l’eccesso di consenso.
Gli studiosi delle dinamiche di gruppo utilizzano un termine: groupthink. Si tratta di un fenomeno psicologico che si verifica quando, all’interno di un gruppo, il desiderio di minimizzare il conflitto e di incrementare l’armonia porta ad aumentare il conformismo rispetto al pensiero dominante, sia esso quello del teamleader o della maggioranza.
L’autonomia di pensiero, la visione critica, il dissenso vengono sacrificati sull’altare della coesione del gruppo. Il groupthink può portare ad assumere pessime decisioni.

Lo studioso che più di tutti ha analizzato in profondità il fenomeno è stato Irving Janis.
Egli ne ha individuato i sintomi, i segni premonitori e alcune modalità di prevenzione.

La voce “Groupthink” su Wikipedia li illustra in dettaglio.
Mi soffermo soltanto sui rimedi, per sottolineare qualche aspetto interessante comune ad alcuni di essi.
Secondo Janis i modi principali per prevenire il groupthink sono questi:

  1. I leader dovrebbero assegnare a ciascun partecipante il ruolo di “valutatore critico”. Questo consente a tutti di esprimere liberamente obiezioni e dubbi.
  2. I leader non dovrebbero esprimere un’opinione quando assegnano un compito al gruppo.
  3. I leader dovrebbero evitare di partecipare a molti dei momenti di incontro del gruppo, al fine di evitare di influenzare eccessivamente il risultato.
  4. L’organizzazione dovrebbe stabilire che molti gruppi diversi lavorino sullo stesso problema.
  5. Tutte le alternative dovrebbero essere prese in considerazione.
  6. Ogni partecipante dovrebbe discutere le idee del gruppo con persone di fiducia esterne al gruppo stesso.
  7. Il gruppo dovrebbe invitare esperti esterni nei meeting. I membri del gruppo dovrebbero essere autorizzati a discutere con gli esperti esterni e a porre loro domande.
  8. Ad almeno un membro del gruppo dovrebbe essere assegnato il ruolo di “avvocato del diavolo”. Questo ruolo dovrebbe essere assegnato ogni volta ad una persona diversa.

Alcune riflessioni su questo elenco di rimedi preventivi.

La prima, banale: un teamleader dovrebbe essere sanamente diffidente verso un eccesso di consenso e, anche se può sembrare paradossale, stimolare forme di dissenso e di critica.
Specie di questi tempi, è utile trattare con diffidenza il pensiero unico.

La seconda: esercitare la propria leadership su un processo decisionale non significa necessariamente intervenire sul contenuto della decisione, anzi. Spesso è più utile, piuttosto che concentrarsi sul “che cosa” viene deciso, capire “come” si è arrivati alla decisione (come si sono raccolte le informazioni, come sono state elaborate, come si è giunti alle conclusioni). La leadership va esercitata sulla struttura, spesso, prima che sul contenuto di una decisione.

La terza: spesso esercitare quest’ultimo tipo di leadership significa “liberare” i membri del team dai ruoli dentro cui sono “incapsulati”, fare recitare loro una parte (vedi il punto 1, il punto 3, il punto 8). Normalmente, nella fase di raccolta delle informazioni, chiediamo ai membri di un gruppo di esprimere le proprie opinioni in maniera documentata e imparziale. Questa imparzialità, però, porta le persone a esprimere soltanto opinioni appropriate rispetto al loro ruolo, inibendo la critica in favore della coesione del gruppo. Autorizzare le persone ad essere “parziali” (ad essere “di parte”, ma anche a “recitare una parte”) può liberare quel potenziale di critica e dissenso costruttivo che a volte consente di evitare gli errori di valutazione e decisione che il pensiero unico inevitabilmente porta con sé.


Nota: questo post era apparso, pur se in forma un po’ diversa, sul blog “Crisi e sviluppo” di Manageritalia.
Visto che quella sezione non è più disponibile, l’ho ripreso qui.

La costruzione del consenso

Forse, a chi si intende di questi temi, la semplificazione potrà sembrare eccessiva.
La propongo comunque.
Fondamentalmente, i modi per creare consenso e coesione (in un gruppo, in un’organizzazione, ma anche in un intero Paese) sono due: affidarsi alla logica amico-nemico, oppure costruire e comunicare un progetto credibile e convincente.
Nel primo caso l’impalcatura del consenso si regge su un messaggio: là fuori c’è un nemico pericoloso, la coesione interna, il consenso al leader, l’adesione a un’idea (magari senza troppo sottilizzare) servono a distinguersi e difendersi da quel nemico.

I vantaggi di questa modalità sono piuttosto evidenti:

  • velocità nella creazione del consenso (se il nemico è davvero così pericoloso, non c’è che una possibilità: stare con chi lo combatte);
  • forza nel reprimere il dissenso (o stai con me, o sei contro di me e, quindi, fai il gioco del nemico);
  • focus sui comportamenti del nemico più che sui propri: non è nemmeno così necessario avere un progetto di sviluppo per il futuro, e, soprattutto, il confronto con i risultati passa in secondo piano.

Per tutti questi motivi, non sorprende il fatto che gruppi, organizzazioni, anche partiti politici nella fase iniziale del loro ciclo di vita (e nelle fasi in cui il tema del consenso è più rilevante) ricorrano a piene mani alla logica amico-nemico (non credo serva fare esempi).
Molto spesso, addirittura, queste narrazioni individuano il nemico all’interno del proprio sistema (altre parti dell’organizzazione, altre funzioni aziendali, altre correnti di partito, eccetera).

La seconda modalità, invece, consiste nel creare coesione attorno ad un progetto, ad un obiettivo, ad un “dover essere” persuasivo e motivante. Si tratta di un processo più lento, probabilmente più solido e inclusivo. Certo, questa modalità sottostà anche a quello che, in un ambito un po’ diverso, abbiamo definito “Il principio del progresso“. Non basta, cioè, stabilire un obiettivo coesivo, si deve anche comunicare costantemente un progresso al fine di mantenere alta la motivazione.

Non serve precisare come l’abilità del leader resta quella di dosare le due logiche, perché se è vero che di logica amico-nemico si può campare per un bel po’, gli effetti collaterali indesiderati non sono da poco:

  • reprimere il dissenso può significare creare una conflittualità latente che approfitterà della prima occasione per manifestarsi;
  • definire la propria identità soltanto per differenza rispetto al nemico vuole dire, comunque, non costruire un modello proprio che diventi un polo di attrazione di nuovo consenso, magari esterno rispetto alla cerchia iniziale. Si “incapsula”, cioè, l’identità del gruppo nella pura contrapposizione con il nemico;
  • non avere un polo di attrazione, ma soltanto un polo di repulsione potrebbe creare, nell’organizzazione, delle “schegge impazzite” che, se anche si applicano per infliggere delle perdite al nemico, non sanno però “fare squadra”.

Infine (ma forse questa è la cosa più importante), le organizzazioni che basano il loro consenso interno soltanto sulla logica amico-nemico spesso implodono in brevissimo tempo, quando il nemico sparisce o perché viene sconfitto definitivamente (infatti, capita  di osservare leader che preferiscono “mantenere in vita” un nemico proprio per non dover affrontare il problema della sua scomparsa), oppure perché qualcuno, anche dall’interno, inizia ad insinuare il dubbio che il mostro potrebbe non essere così brutto come lo si dipinge e che, a guardarlo meglio, si tratta più di un avversario che di un nemico.

 

Nota: questo post era apparso, pur se in forma un po’ diversa, sul blog “Crisi e sviluppo” di Manageritalia.
Visto che quella sezione non è più disponibile, l’ho ripreso qui.

Renzi, l’Italicum, la buonascuola e il tema del consenso

C’è un momento, nelle cene tra amici, che si comincia a parlare di politica.
Non succede sempre. Dipende dagli amici, e dalla cena.
In questi giorni succede spesso, e con un tema ricorrente: Renzi (il fatto che politica e Renzi siano ormai quasi un sinonimo in queste conversazioni già vuole dire qualcosa).
Poi, il tema presenta varie sfaccettature: l’Italicum e la fiducia, l’immigrazione, il lavoro. E, come si fa in queste discussioni, si mette tutto insieme in maniera piuttosto abborracciata.
Devo dire che faccio molta fatica ad esprimere pareri, di solito perché non mi sento in grado di sostenere un’idea documentata (e per la mia forma mentis è l’unico modo per sostenere un’idea), ma spesso anche perché mi rendo conto che il mio parere è probabilmente poco interessante e contestualizzato rispetto al tono di quelle discussioni.
E allora lo dico qui.
Così, la prossima volta, magari lascio il link di questo post a chi mi chiede la mia opinione, che ne so, sulla costituzionalità dell’Italicum.

Parto dall’assunto di base di quel che penso di Renzi: credo che sia uno dei pochi politici in Italia (e forse in Europa) che ha una chiara e coerente strategia di gestione del consenso.
(Tra parentesi: il fatto che questa strategia funzioni più o meno per quanto mi riguarda è molto meno interessante del fatto che sia, appunto, chiara e coerente).

Ho già scritto più volte di come il consenso si possa creare in due modi: attraverso la costruzione di un nemico oppure attraverso la condivisione di una progettualità.
I vantaggi del primo modo sono la velocità nella creazione del consenso, la facilità nella gestione del dissenso interno e il focus sui comportamenti del nemico più che sui propri.
Il rovescio della medaglia:

  • definire la propria identità soltanto per differenza rispetto al nemico vuole dire, comunque, non costruire un modello proprio che diventi un polo di attrazione di nuovo consenso, specialmente se esterno rispetto alla cerchia iniziale;
  • non avere un polo di attrazione, ma soltanto un polo di repulsione si traduce spesso nel dover tollerare, nel gruppo o nell’organizzazione, delle “schegge impazzite” che, se anche si applicano per infliggere delle perdite al nemico, non sanno però “fare squadra”;
  • il consenso è strettamente legato alla credibilità del nemico: se viene a mancare il sistema implode (di solito in modo piuttosto rapido).

Mi pare che questa lettura spieghi alcuni delle caratteristiche fondamentali della parabola politica di leader che hanno (anche recentemente) calcato le scene della politica italiana.

Rimane il fatto, in ogni caso, che la costruzione di un nemico sia il modo più veloce di aggregare consenso, specie quando il potere ce l’ha qualcun altro.

E qui, il primo “colpo” di Renzi al sistema.Mi sembra evidente che questa sia stata la logica costitutiva, vorrei dire strutturale, del panorama politico italiano almeno dalla metà degli anni ’90. Renzi, all’inizio del suo percorso, ha cavalcato questa logica, ma ha completamente spostato l’asse della distinzione amico / nemico da un tema più o meno esplicitamente ideologico a un tema generazionale (la “rottamazione”), mescolando, da un lato, le carte e, dall’altro, trovando un registro di comunicazione assolutamente coerente.
Di sfuggita, faccio notare come anche l’altro fenomeno nuovo nella politica italiana, il Movimento 5 Stelle e il suo leader (o non-leader, a vostra scelta) Beppe Grillo abbia usato come “mossa del cavallo” iniziale uno spostamento dell’asse amico / nemico (la “società civile” contro la “casta politica”).

Una volta però raggiunta la massa critica di consenso sufficiente per aspirare a prendere il potere (non ancora per assumerlo: parlo della fase precedente alla costituzione del suo governo), Renzi ha cambiato completamente le modalità di costruzione del consenso dalla logica di creazione e mantenimento del nemico ad una logica progettuale (#lavoltabuona, #cambiaverso, eccetera), anche qui spiazzando i suoi avversari.
Da allora, quasi più nessun nemico nella strategia di comunicazione di Renzi. Solo possibili interlocutori, più o meno credibili a seconda delle circostanze e dei progetti. E, anche qui, molta abilità nel cambiare pelle e grande coerenza nel registro comunicativo. I soli ad essere additati (ma non si può parlare di nemici) sono coloro che vengono accusati di opporsi in maniera preconcetta al cambiamento e ai suoi effetti positivi (gufi e rosiconi).

Anche questa modalità di creazione e di mantenimento del consenso ha i suoi svantaggi (oltre a non usufruire di alcuni dei vantaggi della logica del nemico): il primo fra tutti è che il tempo diventa una risorsa fondamentale, pena il rischio di venire “cotti a fuoco lento” dalla melina degli avversari.
Come ho illustrato in questo post (il tema era diverso, si parlava di motivazione, ma le categorie in campo sono più o meno le stesse), infatti, per costruire consenso su un progetto non basta persuadere sul senso e sul valore del progetto (la dimensione del significato), va assolutamente presidiato anche il tema del progresso (comunicando i risultati raggiunti e, a volte, forzando la mano per raggiungerli), pena far ricadere i propri supporter/elettori in un senso di frustrazione.
L’asse fondamentale della comunicazione diventa, quindi, la costruzione di risultati da esibire per mantenere alto il consenso sul progetto.
E questo spiegherebbe bene le due caratteristiche fondamentali della comunicazione di Renzi negli ultimi mesi:

  • la focalizzazione forte sui risultati raggiunti (o presunti tali)
  • la pressione sul tempo come dimensione fondamentale dell’azione politica (“Abbiamo discusso, abbiamo ascoltato, adesso è il momento dell’azione” – Vedi l’Italicum, ma ci sono molti altri esempi: la scuola, il Jobs Act, eccetera).

Una paio di precisazioni.

La prima: qualsiasi strategia di costruzione del consenso è un mix delle due logiche che ho cercato di illustrare, ma è vero che (e questo nella comunicazione renziana mi pare evidente) per essere efficace ogni fase deve puntare in maniera decisa su una delle due logiche, e costruire una narrazione coerente con questa logica. Il limite maggiore del M5S è proprio un’incapacità che vorrei quasi definire strutturale (e in questo il leader / non-leader non è esente da colpe) di passare da una logica all’altra.

La seconda: finché si sta all’opposizione la logica amico/nemico è di gran lunga più facile da perseguire, vista la presenza di un nemico (chi sta al governo) che, nel bene o nel male, delle scelte le deve operare e deve, quindi, mostrare il fianco alla critica. Il timing del passaggio da una logica all’altra è un tema di discussione con qualche potenzialità, almeno a mio parere, e su cui vale la pena tornare.

Fosse stato uno dei nostri…

In un post di qualche mese fa su Crisi e Sviluppo ho cercato di analizzare le dinamiche del consenso, in particolare quelle basate sulla logica amico-nemico; quei casi, cioè, in cui la ricerca di consenso poggia su argomenti del tipo: là fuori c’è un nemico pericoloso, la coesione interna, il consenso al leader, l’adesione a un’idea servono a distinguersi e difendersi da quel nemico.
Tutto l’apparato comunicativo è concentrato nel mantenere alta la credibilità circa ciò che rende “noi” diversi da “loro” (e, naturalmente, migliori).

Qualche giorno fa mi è capitato di vedere un esempio (ma se ne potrebbero fare molti) di utilizzo di uno stratagemma funzionale a questo tipo di comunicazione.

Davide Boni, nel commentare su Facebook la questione del conto svizzero (contenuto nella lista Falciani) riconducibile a Pippo Civati , ha scritto:

Civati nella lista Falciani, conto in Svizzera, se per caso vi fosse stato all’interno un leghista, avrebbero chiesto l’impiccagione in piazza… Ercolino sempreinpiedi -)

Ora, pare evidente, almeno al momento, che quella su Civati sia una non-notizia, visto che quest’ultimo ha spiegato la provenienza del denaro e che le cifre in gioco (qualche migliaio di euro) non sono tali da creare un caso.
Rimane, comunque, in ottica di comunicazione politica (ma non solo) una buona occasione per riaffermare la propria diversità da un lato e il proprio essere vittime del sistema dall’altro: fosse successo qualcosa di simile a uno di noi, sarebbe stato messo alla berlina.

Sarebbe un po’ come dire (per usare una metafora calcistica):

“Hanno dato un rigore alla Juventus”
“Sì, ma il fallo era evidente”
“Che c’entra: fosse stato fatto un fallo simile a un giocatore dell’Inter il rigore non lo avrebbero dato”.

Affermazione naturalmente indimostrabile, ma che marca, ancora una volta, il territorio dell’identità.