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Una storia che andava raccontata

Eccomi

Alberto, Chiara e i loro tre figli, cari amici, hanno vissuto una storia che valeva la pena di essere raccontata.

Alberto lo ha fatto e ne è uscito un bel libro.
Malattia, grave.
Coronavirus, fino ad arrivare là, sul bordo.
E poi, inaspettata, la guarigione.

A ben vedere, se lo si vuole leggere ad un livello un po’ diverso, il libro di protagonisti ne ha tanti, tanti di più.

E, forse, in un senso ancora più bello, il protagonista vero è Uno.

Qui è dove potere sapere di più di questa storia.

 

Pensare il dopo

Andrea Fontana sottolinea da giorni la necessità di una narrazione del dopo, quando, tra qualche mese, l’emergenza sarà finita.
Paolo Giordano e Luca Sofri, più modestamente, chiedono che qualcuno almeno pensi e racconti quale sarà il percorso che ci porterà verso il dopo, quello che intraprenderemo, auspicabilmente, tra qualche settimana.

Ho il sospetto che questi ultimi anni ci abbiano consegnato una classe politica incapace di comunicare il progetto, talmente accartocciata (come ho scritto tante volte qui) sul comunicare il nemico da aver perso i paradigmi fondamentali di come si costruisce una visione comune, di come si aggrega una collettività per qualcosa e non contro qualcuno.

Non mi piacciono le metafore e le similitudini belliche usate in questi giorni, descrivono in maniera molto parziale ciò che stiamo vivendo.
Il virus non è un avversario con una volontà e non ha, di per sé, neppure l’obiettivo di annientare l’organismo attaccato, la cui morte porta alla morte del virus stesso, per dire solo due differenze fondamentali.

Mi è piaciuto, anche se non mi trova sempre d’accordo nei contenuti, il tentativo fatto da Simone Perotti di mostrare un altro punto di vista, a partire dalla sua critica a #milanononsiferma, fino alla ricerca degli effetti collaterali positivi non solo come magra consolazione, ma come metodo d’indagine della realtà:

Insomma, effetti collaterali. Che sono sempre interessanti, sono il backstage della realtà. Ci raccontano sempre molto di noi, delle cose di cui ci danniamo, e forse delle nostre coscienze non sempre cristalline nel giudizio sulla vita.

Servirebbe, mi sembra, ora, ma soprattutto servirà dopo, una capacità di comunicare la complessità del nostro vivere e, in un certo senso, anche la sua fragilità.
Partendo da alcune cornici:

  • chi spaccia soluzioni semplici, pozioni magiche infiocchettate con uno slogan, a problemi complessi o non ha idea di che cosa stia parlando o, più probabilmente, sta provando a fregarci;
  • non esiste al mondo qualcuno che abbia tutte le risposte in tasca, né per questo né per gli altri problemi che saranno l’agenda dei prossimi anni (migrazioni, ambiente, stagnazione economica, dinamiche demografiche). Non sarà l’uomo forte, ma neppure quello intelligente. Sarà solo l’unione di pensieri e prospettive e la ricerca faticosa della sintesi, probabilmente fatta anche di errori inevitabili e della capacità di ammetterli. Questo dovrebbe essere il dibattito politico in una comunità sana;
  • la fragilità è una componente ineliminabile del nostro esistere. Dovremo affrontare altre crisi, illudere del contrario non serve;
  • ci sono cose che non stanno insieme, averle entrambe è impossibile, prometterle entrambe è disonesto. Si chiamano trade-off;
  • la comunicazione politica deve, in qualche modo, contribuire anche a educare a tutto questo. Non può più accontentarsi di coagulare consenso.

Mi domando, però, se la vogliamo davvero una comunicazione così.
E se non siamo noi i primi a desiderarlo, l’uomo della provvidenza, quello che

  • tranquilli, ci sono qua io
  • non è colpa nostra
  • non costa nulla

Quello che tranquilli, il nemico è lui, noi siamo i buoni.

La fede, oggi

Venerdì sera mi sono unito alla preghiera di Papa Francesco davanti al Crocifisso di San Marcello ed all’immagine della Salus Populi Romani. Vivo in un’area colpita duramente. Qui le statistiche sono storie di persone conosciute che, quando ricominceremo ad uscire, non incontreremo più per strada.

Come ho già scritto mi sento figlio di quella Chiesa che con Francesco si è inginocchiata a chiedere la fine di tutto questo.

C’è una domanda, però, che non ho potuto eludere in questi giorni: qual è la differenza tra il gesto dell’inginocchiarsi e chiedere aiuto a Dio e quello del rifugiarsi nelle spiegazioni semplici, consolatorie, false ma tanto lineari da darci l’illusione che sì, questa cosa una spiegazione e una soluzione ce le ha (il virus creato in un laboratorio, il grande complotto cinese, quello americano, la vitamina C)?
Non è lo stesso modello mentale per cui, non potendo contenere in noi la complessità, il disagio e per qualcuno il dolore di quanto ci sta accadendo, ci si àncora a qualsiasi scoglio pur di trovare un riparo dalle onde?

Questa mattina leggevo un libro che non c’entra nulla, ma che mi ha regalato un pezzetto di risposta.
Sta in una frase del teologo protestante Paul Tillich:

L’opposto della fede non è il dubbio, ma la certezza