Articoli

Cultura giuridica, regole, controlli

Emergo ora dalla lettura del libro di Salvatore Rossi “Controtempo. L’Italia nella crisi mondiale”.
Si tratta di una lettura molto interessante, per molti versi.
Secondo Rossi, l’Italia vivrebbe in una sorta di controtempo rispetto alle altre economie sviluppate. Questo stesso controtempo ci ha permesso, in un certo senso, di uscire meno danneggiati di altri da questo periodo di crisi. Ma non ci si deve fare troppe illusioni: i problemi strutturali permangono, e se il sistema Paese non sarà in grado di cogliere questa occasione di rinnovamento, quelli che temporaneamente hanno rappresentato degli scudi contro l’imperversare della crisi si trasformeranno in fardelli sulla via della crescita.

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La crisi come occasione di apprendimento e crescita

Cindy McCauley, del Center for Creative Leadership, in questo articolo su Forbes lancia una provocazione che mi pare possa dare il via ad una discussione interessante.
Dice testualmente:

    Non molto tempo fa, trovare nuovi lavori che offrissero nuove sfide non era cosa difficile. Con la crisi economica, sta a voi trovare le opportunità di crescita nel vostro attuale lavoro.
    Per sviluppare la vostra carriera, avrete bisogno di uscire dalla vostra zona di comfort. Nelle organizzazioni odierne, stressate e tirate, potrebbe apparire come un grande rischio. Ma è esattamente ciò che i datori di lavoro cercano: collaboratori che desiderano e sanno prendersi carico di compiti sfidanti, al di sopra e oltre la loro job description. Questo può essere il momento ideale per fare nuove esperienze e ampliare le proprie abilità di leadership.

Ho l’impressione che la maggior parte dei manager che conosco stia facendo esattamente il contrario: rimanere coperti e al riparo aspettando che la tempesta passi.

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Leadership in tempo di crisi

McKinsey Quarterly ha proposto qualche settimana fa un interessante articolo, frutto di una serie di interviste con 14 CEO di altreattante grandi aziende, per cercare di delineare alcune “lezioni di leadership” valide per tempi difficili come quelli che stiamo attraversando.
L’articolo non ha la pretenza di dare delle regole valide in qualunque realtà. Piuttosto, vuole mostrare come, dalle interviste, emerga un sostanziale accordo su alcuni principi che possono fungere da guida sui comportamenti da tenere nelle “stanze dei bottoni” e nell’interazione con collaboratori, clienti, investitori.

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La turbolenza è la nuova normalità

Ieri mattina, Philip Kotler al MIP a parlare di marketing e advertising.
Alcuni dei concetti che ha espresso mi pare completino le considerazioni fatte ieri qui.
Kotler parte da un assunto: “La turbolenza è la nuova normalità“.
Dobbiamo, quindi, abituarci ad uno scenario nel quale il ciclo economico è una linea generata da una fibrillazione continua.
Mi sembra che questo abbia a che vedere con il concetto di “rendita di posizione”.

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Rendite di posizione

Lo scorso venerdì ho avuto il piacere di presentare Sebastiano Zanolli ad un nutrito gruppo di amici di Mindpoint.
Tra le tante cose che ci ha raccontato, una frase mi ha colpito molto: non esistono più rendite di posizione.
La prima reazione è stata di una certa incredulità: se ci si guarda attorno di rendite di posizione se ne vedono ancora, e parecchie.
Eppure, Sebastiano non si sbagliava.
Almeno così a me pare, dopo averci riflettuto un po’.

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Veduta lunga e fondamentali

In questi giorni alcuni temi ricorrono con una certa frequenza nelle mie letture e nelle conversazioni.
Dopo questo post, la visione complementare di Nicola Menicacci, lo stimolo di Luca Marcolin (in relazione all’intervento di De Rita al Festival dell’Economia di Trento e ad un suo interessante articolo).
E poi alcune frasi del libro di Padoa Schioppa, sentite citare in una trasmissione radiofonica, secondo cui la “veduta corta” (dal titolo del libro stesso) avrebbe fra le sue cause l’evoluzione della tecnologia.
Mi pare ci siano due fili rossi che guidano le nostre riflessioni:

  • la necessità di una visione lunga, strategica, d’orientamento
  • il ritorno ai fondamentali

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Ansia del futuro e dilatazione del presente

Enrico Letta mi sembra un politico interessante, sotto molti punti di vista.
Ho appena terminato la lettura del suo libro “Costruire una cattedrale“.
C’è un’idea di fondo, che anima la sua visione della politica e dell’economia: la crisi (economica, ma anche sociale) che stiamo vivendo affonda le sue radici nel “presentismo”, nell’atteggiamento diffuso di sacrificare il futuro (e gli investimenti che questo richiede) al presente ed alle visioni di breve periodo.
I sintomi: cicli politici sempre più brevi, sindrome da trimestrale, incapacità di realizzare riforme anche impopolari (sia politiche che economiche), ma che gettano le basi per la prosperità delle future generazioni.
E gli effetti sono sotto gli occhi di tutti.

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Formazione manageriale sì, formazione manageriale no

Sul blog di Psychology Today, Dan Ariely e Dennis Rosen animano un interessante scambio di idee sul valore della formazione manageriale e sulle lezioni che la crisi economica in corso dovrebbe fornire anche in questo ambito.
Le opinioni sono diverse.
In sintesi, secondo Ariely la formazione è un bene in sè, e questo momento di crisi ne dimostra ancora di più il valore.

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Lontani dalle etichette, specialmente in tempi di crisi

Il blog di John Baldoni offre spesso degli spunti interessanti. Uno mi pare quello contenuto nell’articolo In a crisis, avoid labeling.
La tesi è questa: i politici utilizzano spesso la pratica di etichettare i problemi.
Un esempio: l’assistenza alle aziende in crisi può essere definita da qualcuno “nazionalizzazione”, da altri “stabilizzazione”.
Queste semplificazioni hanno il chiaro fine di indirizzare il consenso. E funzionano perché parlano a dei seguaci più che a degli individui.
I manager dovrebbero evitare questa pratica, che comprime gli spazi del dibattito interno e sfavorisce l’emergere di una intelligenza collettiva e di modi alternativi di pensare, specialmente nei momenti di crisi.

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Mestieri anticrisi

È pratica diffusa, in questi giorni e su parecchie testate, quella di individuare quei mestieri che, pur in questo periodo di profonda crisi, mantengono o addirittura accrescono il numero di occupati.
Mestieri anticrisi, insomma.
A questo riguardo, però, mi pare che si tenda a fare di tutte le erbe un fascio, e ad accomunare mestieri che tra loro hanno poco a che vedere, non perché appartengano a settori molto diversi, ma piuttosto per le ragioni stesse che ne fanno mestieri “anticrisi”.
Non mi pare inutile, quindi, cercare di tracciare una minima tassonomia di questi mestieri, almeno per quel che ne posso capire io.
Anche perché, se il messaggio implicito (e in alcuni articoli che ho letto in questi giorni mi pare proprio che di questo si tratti) è quello che “cavalcare” questi mestieri potrebbe essere una buona strategia di self-marketing, allora forse qualche considerazione più approfondita è d’obbligo.

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