Di arte e sofferenza
In questi giorni mi è finita sotto agli occhi questa citazione di Georges Simenon:
La scrittura è considerata una professione: ma io penso che non lo sia. È una vocazione all’infelicità. Perché se un uomo ha l’impulso di fare l’artista è per il bisogno di trovare se stesso. Attraverso i suoi personaggi, attraverso tutto ciò che scrive.
Mi ha ricordato una cosa che mi è stata detta quest’estate, da una poetessa di cui ho grande stima:
Non può esistere arte senza sofferenza. Tutta la vera arte è figlia della sofferenza.
Non sono un artista. Forse proprio per questo il nesso stretto tra arte e sofferenza mi sfugge, e, a dirla tutta, mi lascia perplesso.
In questi giorni, come ho già scritto nei commenti al post precedente, ho ripreso la lettura di un autore che, forse più di ogni altro, mi ha influenzato in alcuni anni decisivi per la mia formazione: Erich Fromm.
Nel capitolo iniziale de L’arte di amare, scrive:
Il primo passo è di convincersi che l’amore è un’arte così come la vita è un’arte: se vogliamo sapere come amare dobbiamo procedere allo stesso modo come se volessimo imparare qualsiasi altra arte, come la musica, la pittura, oppure la medicina o l’ingegneria.
Quali sono i passi necessari ad imparare un’arte? Possiamo dividerne il processo in due parti: teoria e pratica.
Per l’arte della medicina, prima devo conoscere il corpo umano e la patologia. In possesso di questa conoscenza teorica, posso diventare un maestro solo dopo una gran pratica, finché i risultati della mia scienza e i risultati della pratica non siano fusi in uno: il mio intuito, l’essenza della padronanza di qualsiasi arte. Ma, oltre a conoscere teoria e pratica, c’è un terzo fattore necessario per diventare maestro in qualunque arte: non deve esserci al mondo niente di più importante. Questo vale per la musica, per la medicina, per l’amore.
Mi stimola, in particolare, quest’ultimo concetto. Non deve esserci al mondo niente di più importante.
Probabilmente sto per scrivere una bestialità, ma a mio modo di vedere (e per la conoscenza che ho di alcuni artisti, peraltro anche molto dotati), il punto sta non tanto nella sofferenza come veicolo in sè per l’espressione artistica. Il punto è questo senso di priorità della propria arte rispetto al resto dell’esperienza.
Certo, la sofferenza (specie dopo il bagno del pensiero occidentale nel Romanticismo) è uno dei veicoli, forse il più visibile, verso questo rapporto incondizionato con la propria arte. Uno, non l’unico. E, soprattutto, veicolo. Non fine.
Simenon la chiama vocazione all’infelicità. Mi viene quasi da tradurla in vocazione all’insoddisfazione.
Ma, forse, tra voi c’è qualcuno che, al contrario di me, può dare del tu a una qualche arte.
In questo caso, mi piacerebbe davvero un contributo.