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Un’indagine

Un breve racconto: tre momenti e l’incrocio di tre vite.
Spero vi regali qualche minuto piacevole.

Per leggerlo potete scaricare il file, nel formato che preferite (nel dubbio, scaricate il .pdf), oppure scorrere direttamente il testo da questo post.

Come sempre, alla fine, lo spazio per commenti, se ce ne sono, e per critiche.


Un’indagine

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Un’indagine

I

Agosto 2004

Don Gabriele,
le scrivo perché me ne vado. In cerca di fortuna, direbbe lei, con un tono che sottintende che la fortuna è vivere qui, e che la gratitudine suggerirebbe di rimanerci. In realtà, non cerco nulla. Ci sono partenze che sono fughe, Don Gabriele. Questo credo lo possa capire.
Ho voluto avvisarla per tempo, così che trovi il modo per insegnare a qualcun altro a portare la croce nella processione del venerdì santo. Non è per niente facile tenere su quei venti chili. Se lo ricorda quando mi ha detto che la croce, alla fine della quaresima, l’avrei portata io?
Passai ore ad allenare la forza e l’equilibrio: non volevo farmi cogliere di sorpresa dal peso del legno e da quello ancora più gravoso di essere chi sta davanti, in processione, e che quindi tutti lo vedono e lui non vede nessuno. Cominciai in chiesa, da solo. Alzare e abbassare: è da lì che si misura il portatore, se riesce in quei movimenti a conservare solennità, senza che il peso, il timore o la trascuratezza alterino la gradualità della partenza e la fermezza dell’arrivo. Poi, passata la prima fase di esercizio nascosto, uscii all’aperto: bisognava sentire il vento scuotere il legno e misurarne l’effetto sul drappo che copre la croce e che lei avrebbe levato pezzo a pezzo, durante le tappe della processione: Ecce lignum Crucis, in quo salus mundi pependit. Ecco il legno della croce da cui dipende la salvezza del mondo.
Uscii sul sagrato e il vento fece vibrare il legno tra le mie mani: mi parve di sentirlo riscaldarsi nel confronto che gli imponevo con la natura di cui era stato parte. Era chiara, in quel momento, la differenza tra il legno delle betulle che crescono sul sagrato e i due pezzi di larice che tenevo tra le mani, innestati a perpendicolo. Anche le betulle paiono opporsi al vento, ma in realtà sanno di essere parte del medesimo disegno. Non resistono, loro. Si lasciano aggirare: sanno che né loro né il vento decideranno quale sarà la raffica che, un giorno, le abbatterà.
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Storytelling buono, storytelling cattivo (più che altro il secondo)

Dibattito interessante, in questi giorni, sull’uso dello storytelling nel giornalismo italiano. Ne hanno parlato Luca Sofri, Federico Ferrazza, Massimo Mantellini.
Sbaglierò, ma mi sembra che tutte le posizioni partano da un presupposto che non riesco a fare mio: lo storytelling è di per se stesso uno strumento più manipolativo rispetto ai fatti e ai numeri.
Nessuno di loro nega che sia uno strumento e non un fine ma, come dire, se i fatti venissero paragonati ad un coltello (uno strumento né buono né cattivo in sé, dipende dall’uso che se ne fa: può servire per ammazzare un poveraccio oppure per tagliare un cocomero), lo storytelling verrebbe paragonato ad una pistola (certo che è solo uno strumento, che se ne potrebbe anche far un buon uso, ma meglio diffidarne a prescindere).
A dire il vero, in maniera piuttosto esplicita, viene data una ragione di questa diffidenza: si tratterebbe di un problema di rappresentatività: possiamo anche raccontare una storia vera, ma quanto questa è rappresentativa di un fenomeno più generale? E se raccontiamo soltanto storie eccezionali, non è che ci sfugge completamente il quadro di normalità da cui emergono queste eccezioni?
Vero. Ma è vero anche per qualsiasi altra informazione non narrativa, e lo è tanto più in un sistema (in un mondo) complesso. Non vedo un legame stretto, quindi, tra il problema e lo strumento.

Credo, invece, ci siano due motivi fondamentali e impliciti che alimentano la diffidenza verso lo storytelling, forse con qualche ragione:

  1. Si tratta, innanzitutto, di uno strumento particolarmente potente di comunicazione delle idee, per tutte le ragioni che ho già argomentato più volte. Un po’ come dire che, se lo storytelling fosse un coltello, si tratterebbe di un coltello molto (troppo) affilato.
    Perché, allora, non rinunciarci? Visto quanto è rischioso usare un’arma così potente, meglio lasciar stare, accettando di privarsi anche dei potenziali benefici.
  2. Al contrario dei fatti e dei numeri, una narrazione può, costitutivamente, essere falsa senza per questo essere immorale o censurabile (una favola, un racconto, un romanzo non raccontano verità, ma non per questo sono oggetto di condanna). Questa caratteristica, accennata da Luca Sofri nel suo post, ne fa effettivamente uno strumento più facilmente asservibile a fini di persuasione e di propaganda, creando una zona grigia in cui le storie vere non si distinguono più da quelle false.

La domanda è, allora: può la combinazione di queste due caratteristiche rendere lo storytelling più simile ad una pistola che ad un coltello? Può renderlo uno strumento di cui (specie se si parla di giornalismo, ma il principio vale anche in altri ambiti) è bene diffidare a prescindere?

La mia risposta, forse non serve neppure dirlo, è “no”.

Primo, perché il piano inclinato della logica che sta dietro a questo ragionamento è piuttosto scivoloso e nasconde rischi non trascurabili. Uno su tutti: dove sta il confine secondo cui il coltello sarebbe “troppo” e non “giustamente” affilato?
Condannare lo strumento per esorcizzarne gli effetti potenziali, quando si parla di comunicazione, insomma, è una strategia che paga davvero raramente.

Secondo (ribadisco quanto ho già scritto alla fine di questo post), perché si tende sempre a concentrare l’attenzione, quando c’è in gioco questo tema, su una specifica funzione della narrazione, quella di trasmettere una visione del mondo preconfezionata dentro alla capsula indistruttibile di una storia. In realtà, spesso le storie (anche nel giornalismo) servono a fare una cosa diversa e preziosa, che non vorrei gettare via: aprire la visione del mondo invece che chiuderla, iniziare una comune costruzione di senso.
Certo, anche quello delle narrazioni identitarie (specie nel nostro Paese) è un tema che si porta dietro più di un caveat. Però, buttare il bambino con l’acqua sporca, anche no.

La versione di Andre

Un caro amico mi ha regalato, un paio d’anni fa, Open, l’autobiografia di Andre Agassi.
Ne ho letto una cinquantina di pagine subito, poi ho abbandonato. Non era il momento.
Quest’estate il momento è arrivato.
Il libro mi è piaciuto, e non solo per ragioni tecniche. Magari dedicherò un post al perché.
Qui mi voglio concentrare su un tema di tipo costruttivo che mi stimolato.
Open, tra le altre cose, è quella che potremmo definire una “contronarrazione”: la versione di Agassi opposta alla narrazione che i media gli hanno appiccicato addosso per buona parte della sua carriera. (Uno degli effetti di questa narrazione, tra l’altro, è stato che io tifassi apertamente per Pete Sampras).

La verità di Agassi si può riassumere nel fatto che i suoi atteggiamenti eccentrici, ribelli, a volte anche un po’ violenti fossero il frutto del suo odio per il tennis: uno sport, e una vita, imposti da un padre autoritario che non gli ha mai lasciato libertà di scelta rispetto al futuro. Conseguenze inevitabili: insicurezza, risentimento, instabilità emotiva. Non, quindi, un vip viziato, iracondo, ribelle e arrogante, ma un ragazzo disorientato che non trovava altri modi manifestare la sua sofferenza.

Impossibile dire dove stia la verità (ammesso che ce ne sia una).

Mi sembrano interessanti, però, alcuni aspetti “tecnici” di questa contronarrazione.

Innanzitutto, Agassi non oppone ad una narrazione negativa un ritratto totalmente e semplicemente positivo. Ammette errori e bugie (alcuni anche pesanti), ma attribuisce il tutto ad una causa socialmente molto più accettabile rispetto al ritratto che ne hanno tracciato i media.
Spesso, per quel che vedo in giro, invece, le contronarrazioni semplicemente oppongono una immagine assolutamente positiva dai tratti opposti rispetto alla narrazione dominante, finendo, in questo modo, per radicalizzare le contrapposizioni senza quasi mai spostare sostanzialmente il consenso.

Secondo aspetto: la narrazione che emerge da Open progredisce attraverso la trasformazione del personaggio, ne ritrae un’evoluzione e un cammino. Oltre a dire “non sono perfetto” (anche se i miei limiti e difetti reali sono, appunto, ben diversi da quelli che mi vengono attribuiti) Agassi si mostra nella sua evoluzione, attraendo simpatia con una storia in cui chi (e siamo in tanti) si sente dentro un viaggio alla scoperta di sé può, in qualche modo, identificarsi.
Il simbolo di questa evoluzione è nel suo rapporto con il tennis: l’odio iniziale si trasforma in un rapporto complesso che diventa non solo la causa, ma anche la metafora del suo approccio alla vita.

Effetto di tutto questo: se oggi dovesse ripetersi uno di quei bellissimi scontri tra Agassi e Sampras, non so bene da che parte starei.
Però un sospetto ce l’ho.

Natale, primo pomeriggio

Seconda narrazione, dopo “La paura è nemica facile“. L’esplorazione, qui, ha a che vedere con il dialogo. E con un’intelligenza, a suo modo, precoce.

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Come sempre, alla fine del post, lo spazio per commenti, se ce ne sono, e per critiche.

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Natale, primo pomeriggio
Un incontro in forma di dialogo, o viceversa

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Natale, primo pomeriggio

«Ha un nome, quell’attrezzo?»
«Sei sicuro che sia quello che vuoi sapere? Il nome di questo attrezzo?»
«No. Per la verità era un pretesto. Voglio capire che cosa ci fa, lei, al lavoro, il giorno di Natale».
«Già meglio, questa, di domanda. I presupposti: meno scontati. Che tu me lo chieda presuppone ci sia qualcosa di strano nel fatto che un uomo lavori il giorno di Natale. È così, ragazzino? Trovi strano vedere un uomo lavorare in un giorno di festa?»
«Non sempre. Intendo che certi lavori è normale che ci sia qualcuno che li fa anche il giorno di Natale. Sono cose che non se ne può fare a meno. Prendiamo per esempio i medici, oppure quelli che guidano gli automezzi per spalare la neve, che se viene giù forte, allora devono uscire e lavorare anche se è il giorno di Natale; e poi, sì, anche quelli che fanno la tivù, che se c’è qualcuno in casa da solo, allora gli possono dire che, in qualche modo, ci sono loro a fargli compagnia, a Natale, e, se sono bravi, lui ci potrebbe anche credere.
Ma quelli che stanno in una bottega a riparare un vecchio armadio, no. Quelli non è normale che lavorano, oggi. Quelli la bottega la chiudono e vanno a pranzare alle tavolate lunghe di parenti, o, se sono soli, stanno davanti alla tivù».
«Non lo sto riparando. Quello che faccio si chiama restaurare. Hai idea della differenza?»
«Credo di sì. Mi scusi».
«E quindi quello che vuoi sapere è questo: che ci fa un vecchio a restaurare un armadio il giorno di Natale? È questo che ti interessa, davvero?»
«Mi piace capire perché gli adulti fanno certe cose».
«E dimmi, perché non ci sei tu seduto a un tavolo: parenti, dolci, cose da Natale?»
«Ci sono stato fino a poco fa: mio padre mi lascia scendere in strada, purché abbia mangiato tutto il primo. Tanto sa che non toccherò più nulla. Me ne starò lì a fissarlo mentre parla. Credo non gli piaccia, quando lo fisso. Lo sa, una volta ho perfino pensato che gli metto paura».
«E quest’oggi, che cosa hai pensato, una volta finito il primo?»
«Oggi sono sceso in strada».
«E ti sei messo a fissare me».
«Faccio paura anche a lei?»
«Questa è proprio buona. Sono vecchio, ma mi tengo in forze, sai. E tu peserai cinquanta chili da vestito. Se provi a farmi del male, saprò come difendermi».
«Ecco un’altra cosa che non capisco degli adulti: quando parli di paura, la loro prima mossa è quella di misurare le forze. Se si sentono più forti, allora non hanno paura. Altrimenti sì».
«Invece?»
«Non lo so, ma mi sembra una cosa più complicata di così. Io, per esempio, a volte non ho paura anche quando affronto delle cose più forti di me. Lo sa: crescendo, succede di dover affrontare delle cose forti. Ma io lì non ho paura. Invece, ci sono dei momenti che mi spavento per un niente. Poi cerco di calmarmi, ma prima era paura».
«Io la vedo così: la paura non è questione di pesi e forze. Di equilibri, piuttosto. Un po’ come camminare su un filo, e quel filo è il tuo volere. Perché se una cosa la vuoi troppo, allora hai paura di non averla o di perderla, se la vuoi troppo poco, hai paura che non basti, di essere sbagliato. Se, invece, la vuoi il giusto, allora il volere supera la paura di perdere, e sei pronto a combattere per questa cosa. Perché è una cosa giusta per te. E tu allora diventi, non so se si capisce, giusto per lei».
«Sì, un po’ si capisce. Magari quando cresco la capisco anche meglio».
«Visti questi presupposti, la cosa da chiederti sarebbe quale tipo di paura gli fai, a tuo padre. Quella del troppo oppure quella del troppo poco?
Ma non son cose da domandare a uno sconosciuto, specie se giovane, e specie se è il giorno di Natale».

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La paura è nemica facile

La paura è nemica facile
Una narrazione in tre movimenti.
L’idea la devo ai commenti di Erri de Luca alla vita di Noè, come raccontata nel libro della Genesi.

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Uno

Tra qualche momento ti dirò che tutto questo è senza astio, e, in qualche forma soltanto sua, senza dolore.
E tu non mi crederai.
Perché un ragazzo che muore con qualcuno se la deve prendere. Vedere un uomo andarsene su una barca mentre tu te ne vai a morire ti deve per forza fare incazzare.
Non io.
Niente astio.
Niente dolore.
Solo, ascolto.
Voglio vedere quella barca, sollevata, galleggiare. E poi l’occhio negli occhi di quell’uomo che sa vedere chi gli chiede aiuto e proseguire, senza aiuto.
Non sarò io a chiedere. Non mi si vedrà supplice.
Non ho paura.
La paura è nemica facile, per chi ha vinto astio e dolore.

Ho ascoltato la pioggia, e ho capito che non sarebbe finita: non era acqua che apre la terra, che rivive nella polpa del frutto, nell’occhieggiare del ruscello fra le rocce.
Questa è acqua che copre.
Un orecchio attento sente che non è generare, il gesto. Piuttosto, lavare.
No, non è qui che non mi crederai: lo si può accettare, che c’è un’acqua che nutre e una che lava, e che, se lasciato solo, l’occhio non ne distingua la differenza. L’orecchio l’apprezza, invece. Puoi crederlo, dunque, che un ragazzo abbia compreso la strage fin dalle prime gocce, quando ancora l’unico indizio era il bisbigliare, a sera, nelle tende, della pazzia di un uomo.

Ho preso cammino di buon mattino, dopo aver ascoltato la pioggia scendere per tutte le ore dello scuro.
Mi sono concesso di assecondare, per un’ultima notte, la speranza che in qualche modo ci potessimo attendere un domani. Svanito, albeggiava, l’ultimo auspicio, ho preso cammino per il sentiero che porta quassù. Ho scelto il più erto tra i passaggi, che offre in compenso alla difficoltà una vista anticipata della meta. Ha una sua giustizia, la montagna, che scambia sforzo con anticipo: chi sa affrontare il primo ne ha in cambio il secondo.

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