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Fate pace con il potere

Post totalmente autoreferenziale, scusatemi…

Il fatto è che il 19 aprile sarà disponibile il mio nuovo libro.
So che non vedevate l’ora 😉
In questa newsletter, quindi: un piccolo spoiler sul libro e la possibilità, per chi lo desidera, di partecipare alla presentazione online che terrò mercoledì 10 aprile alle 17.00 (via Zoom)
Il link per l’iscrizione è questo
A chi vorrà esserci invierò, a qualche giorno dall’evento, una mail con il link per partecipare.
Ah, tra chi sarà collegato sorteggerò anche, dopo la diretta, tre copie del libro (il mio consulente di marketing mi ha detto che questa cosa dovrebbe attrarre un sacco di gente… sarà vero?).

… quasi me ne dimentico: la prefazione me l’ha scritta il mio dean, Federico Frattini… è una cosa che mi fa una sacco di piacere

Il libro

Fate pace con il potere
Questo è il titolo.
E il sottotitolo è: Contro la retorica della leadership

Una provocazione, quindi. Cerco di spiegarne i motivi nella quarta di copertina:

Il potere non gode di buona fama. Affermazioni come «meno potere e più leadership», elenchi di distinzioni tra l’essere capo e l’essere leader (tutte, naturalmente, a favore di quest’ultimo) e ricette preconfezionate su come condurre un gruppo al successo riempiono libri, articoli, post. La realtà della vita – nelle organizzazioni così come nei rapporti personali – è però ben diversa. Il potere esiste, eccome. Alimenta le decisioni, innerva le relazioni, influisce sui comportamenti. Spesso peraltro in modo positivo. Fate pace con il potere è dedicato a questo convitato di pietra, per comprenderlo nei suoi elementi costitutivi, per capire come agisce, per misurarlo, conquistarlo quando è necessario, ed esercitarlo in modo efficace. Perché giocare il gioco del potere è il modo più pratico per far sì che le cose accadano. Un libro per superare la retorica della leadership e scendere invece sul terreno della vita quotidiana di gruppi, aziende, associazioni, partiti politici. Un libro per imparare a leggere le organizzazioni per come sono davvero, e non per come ci piacerebbe che fossero.

I contenuti

Il libro parte da alcuni assunti:

  • potere, sia nel linguaggio quotidiano, che in molta letteratura manageriale, è una parola che ha assunto un significato sostanzialmente negativo, spesso contrapposto al valore positivo assunto dalla parola leadership;
  • in realtà il potere è una dinamica relazionale che innerva qualsiasi tipo di organizzazione sociale ed è uno strumento come un altro per far sì che le organizzazioni funzionino e lo facciano in modo efficiente. Va, quindi, innanzitutto conosciuto (visto che attorno alla sua definizione circola parecchia confusione) e, poi, rivalutato;
  • inoltre, la leadership non è una struttura relazionale contraria al potere, ma è, essa stessa, una forma di potere (nella definizione del libro, la leadership è una forma di potere fondata su uno scambio di beni simbolici, e basata sulla moneta del consenso). Nulla di strutturalmente diverso, quindi, dalle altre forme di potere.

Sulla base di questi assunti, il libro è diviso in quattro parti:

Prima parte
Tassonomia del potere

Viene condivisa una definizione di potere e vengono, quindi, delineate le sue caratteristiche e le dinamiche della relazione di potere.
Alla fine di questa parte il lettore ha a disposizione una griglia di lettura della relazione di potere che consente di comprenderne gli elementi costitutivi, i meccanismi di funzionamento, le diverse articolazioni e le caratteristiche della relazione stessa.

Seconda parte
La conquista e la gestione del potere

Questi capitoli sono dedicati a due temi principali:

  • come far crescere il proprio potere potenziale (la quantità di potere a disposizione) attraverso la crescita:
    • delle risorse a disposizione dei soggetti detentori del potere;
    • della credibilità del potere verso i soggetti che lo subiscono;
    • della desiderabilità delle risorse di potere per i soggetti che lo subiscono;
  • come esercitare il potere in maniera efficiente: come, cioè, trasformare le risorse di potere (potere potenziale) in condotte e comportamenti tenuti da chi subisce il potere (potere attuale) al minor costo possibile.

Terza parte
La cattiva fama del potere

In questi capitoli analizzo quali sono i fattori che conferiscono al potere un’aura di negatività:

  • alcune confusioni nella definizione del potere, che, quindi, attribuiscono al potere attributi che non sono suoi;
  • alcune comode abitudini (quelle, per esempio, di trovare soluzioni semplici a problemi complessi o di utilizzare narrazioni agiografiche come casi di successo) che mal si adattano al tema del potere;
  • soprattutto, però, la confusione, presente in molta letteratura manageriale, tra le cose come sono e le cose come ci piacerebbe che fossero, che porta a descrizioni idealizzate delle organizzazioni.

Quarta parte
Leadership e consenso

In questa parte analizzo il tema della leadership come forma di potere. Non, quindi, una trattazione sulla leadership in generale, ma sul suo rapporto con il consenso (un approccio politologico alla leadership).

Oltre ad una parte tassonomica, in cui delineo le modalità con cui si costruisce e gestisce il consenso e le tipologie di consenso (che generano tre forme di leadership: carismatica, ideologica, pragmatica), presento, proprio sulla base di queste definizioni, la mia critica alla leadership come strumento aprioristicamente migliore rispetto alle altre forme di potere per condurre un gruppo o un’organizzazione.

Spero di essere stato convincente…

Se è così, come dicono quelli che parlano bene, save the date…

Mercoledì 10 aprile dalle 17.00 alle 18.00

Ancora una volta, il link per partecipare

Le mani nel conflitto

Su Sic dixit, il magazine del PMI SIC, un’intervista in cui parlo di conflitto e delle modalità per affrontarlo.

Le mani nel conflitto: potere, persuasione, negoziazione

Il magazine, in formato pdf, è scaricabile a questo link. L’intervista è a pagina 15.

Come sempre, se avete commenti e osservazioni, vi invito a lasciarli qui sotto.

Le forme della leadership

Su Econopoly proseguo il discorso iniziato qualche settimana fa, quando ho proposto alcune definizioni di due termini vitali nella quotidianità delle organizzazioni: potere e leadership, partendo dal presupposto che non condivido gli approcci che tendono a contrapporre questi termini e, nella stragrande maggioranza dei casi, ad attribuire un significato negativo al primo, positivo al secondo (posizioni sintetizzabili nella formula: più leadership e meno potere).

In questo secondo post mi concentro sulle diverse forme che può assumere la leadership, sulla base del tema dominante su cui il leader centra la propria comunicazione ai fini di costruire consenso.

Distinguo, così, tra:

  • leadership ideologica
  • leadership pragmatica
  • leadership carismatica

Ancora una volta, vi chiedo i vostri commenti, così da poter proseguire questa serie di post cercando di rispondere alle vostre domande e contributi.

Potete aggiungere, quindi, un commento qui sotto, anche rispondendo alle domande che ho lasciato aperte alla fine del post

Il link su Econopoly è questo

Leadership e potere

Su Econopoly, un mio post in cui tento di porre le basi per un linguaggio comune che riguardi le definizioni di leadership e di potere.

Leadership e potere: un (modesto) tentativo di fare chiarezza

L’obiettivo è di fornire un’alternativa ad una visione dicotomica (e, secondo me, un po’ semplicistica) della relazione tra queste diverse modalità di gestione delle dinamiche dei gruppi di lavoro.

Nel post ho chiesto, per poter approfondire nelle prossime settimane in modo più efficace le idee che vi sono espresse, commenti, domande e contributi.

Potete lasciarli qui nei commenti.

Grazie!

Il conflitto, tra potere, persuasione, negoziazione

Su Econopoly – Il Sole 24 Ore, un mio nuovo post sulla gestione dei conflitti nelle organizzazioni, ispirato dalle considerazioni fatte tempo fa da Luca Foresti sempre sullo stesso tema.
Quali modalità si possono adottare per risolvere un conflitto?
Quali le variabili rilevanti per la scelta?
 
Il post lo trovate a questo link, mentre, se volete lasciare dei commenti, potete farlo direttamente qui.

Anatomia del conflitto (2)

Sulla scorta della definizione di conflitto data nel post precedente, provo a dettagliare quali sono le modalità con cui si possono “mettere le mani” in un conflitto, premettendo che spesso la soluzione (specie se si tratta di un conflitto complesso) è il frutto dell’applicazione di un mix delle diverse modalità.

  1. Esercizio del potere
    Se una delle parti detiene un potere superiore rispetto all’altra, può esercitare questo potere e imporre la propria soluzione del conflitto.
    Tornando all’esempio della società di sviluppo software del post precedente, il CEO dell’azienda (di estrazione commerciale), potrebbe fare leva sulla propria posizione per imporre una soluzione: “In questa azienda si fanno tutte le personalizzazioni richieste dal cliente!
  2. Persuasione
    Si adotta questa soluzione quando una delle parti prova a “vendere” all’altra la propria soluzione del conflitto, cercando di argomentarla in modo da convincerla che quella è la soluzione più produttiva.
    Come se i commerciali argomentassero agli sviluppatori i motivi per cui si debba personalizzare il più possibile al fine di penetrare un mercato molto competitivo nel quale le aziende concorrenti sono in grado di offrire al cliente “soluzioni su misura”. Se gli sviluppatori venissero convinti da queste argomentazioni, quel conflitto sarebbe stato risolto attraverso la persuasione.
  3. Negoziazione
    Al contrario che nei due casi precedenti, la negoziazione è un processo nel quale la soluzione del conflitto si genera attraverso la relazione tra le parti.
    Le definizioni date di “esercizio del potere” e di “persuasione”, infatti, hanno in comune il fatto che la soluzione è quella che una delle parti ha portato al tavolo (nel primo caso viene imposta, nel secondo “venduta”). Nella negoziazione, invece, nonostante le parti arrivino al tavolo ciascuna con le proprie posizioni, valori e interessi, la soluzione verrà generata attraverso l’interazione e sarà una soluzione diversa rispetto a quella prospettata da ciascuna delle parti in gioco.
    (Solo una nota tra parentesi: spesso, nel linguaggio comune, si confonde la negoziazione con la persuasione. Se una delle parti arriva al tavolo con l’intenzione di convincere l’altra della bontà della propria soluzione, non sta negoziando: sta persuadendo).

Ora, la domanda successiva è: in quali circostanze viene usata ciascuna di queste modalità?

Partiamo dall’ultima: la negoziazione.

Nei contesti organizzativi si negozia in due casi:

  1. il primo, il più banale e forse anche il più comune: quando si è costretti a negoziare.
    Non si ha un potere sufficiente per imporre la propria soluzione e non si trovano argomentazioni sufficientemente forti per persuadere la controparte.
  2. il secondo, più interessante: quando si sceglie di negoziare, pur magari detenendo un potere, nella convinzione che una soluzione che si generi dall’interazione fra le parti possa essere migliore rispetto a quella portata al tavolo da una sola delle parti (fosse anche la mia parte).

Questo “essere migliore”, a sua volta, può manifestarsi su due piani:

  1. sul piano del contenuto: se fossi il CEO dell’azienda del nostro esempio, sceglierei in questo caso di negoziare nella convinzione che, facendo interagire il gruppo dei commerciali con il gruppo degli sviluppatori, emergerà una forma di personalizzazione del software che consenta di venire incontro ai clienti salvaguardando, però, la solidità e la scalabilità del prodotto (la scelta, in questo caso, implica quella dose di umiltà di chi ammette di non avere necessariamente in tasca la soluzione migliore);
  2. sul piano della relazione: in questo caso, si sceglie di risolvere il conflitto attraverso la negoziazione non per avere una soluzione migliore, ma piuttosto per non fare sentire la controparte oggetto di un’imposizione (potere) o di una manipolazione (persuasione), nella convinzione di alimentare così una relazione migliore.

Per differenza, a questo punto:

  • Si sceglie la persuasione quando si è convinti che lo scambio non porterà a generare soluzioni migliori dal punto di vista del contenuto, e si può assumere il rischio che la controparte si senta manipolata.
  • Si sceglie l’esercizio del potere quando si è convinti che lo scambio non porterà a generare soluzioni migliori e si può assumere il rischio di imporre una soluzione.

Infine, il fattore tempo impatta sulla decisione, visto che persuasione e negoziazione sono senz’altro processi più lenti e laboriosi rispetto all’esercizio del potere.

Un’ultima nota: questo post è un tentativo di modellizzare un processo complesso come quello della risoluzione di un conflitto.

Per questa ragione, i suggerimenti vanno presi come stimoli e non come ricette preconfezionate: la realtà là fuori è qualcosa di molto più complesso di quanto si può sintetizzare in un modello.

Nei prossimi post analizzerò più a fondo alcuni aspetti fondamentali della negoziazione e, più avanti, torneremo anche sul tema dell’esercizio del potere.

La costruzione del consenso

Forse, a chi si intende di questi temi, la semplificazione potrà sembrare eccessiva.
La propongo comunque.
Fondamentalmente, i modi per creare consenso e coesione (in un gruppo, in un’organizzazione, ma anche in un intero Paese) sono due: affidarsi alla logica amico-nemico, oppure costruire e comunicare un progetto credibile e convincente.
Nel primo caso l’impalcatura del consenso si regge su un messaggio: là fuori c’è un nemico pericoloso, la coesione interna, il consenso al leader, l’adesione a un’idea (magari senza troppo sottilizzare) servono a distinguersi e difendersi da quel nemico.

I vantaggi di questa modalità sono piuttosto evidenti:

  • velocità nella creazione del consenso (se il nemico è davvero così pericoloso, non c’è che una possibilità: stare con chi lo combatte);
  • forza nel reprimere il dissenso (o stai con me, o sei contro di me e, quindi, fai il gioco del nemico);
  • focus sui comportamenti del nemico più che sui propri: non è nemmeno così necessario avere un progetto di sviluppo per il futuro, e, soprattutto, il confronto con i risultati passa in secondo piano.

Per tutti questi motivi, non sorprende il fatto che gruppi, organizzazioni, anche partiti politici nella fase iniziale del loro ciclo di vita (e nelle fasi in cui il tema del consenso è più rilevante) ricorrano a piene mani alla logica amico-nemico (non credo serva fare esempi).
Molto spesso, addirittura, queste narrazioni individuano il nemico all’interno del proprio sistema (altre parti dell’organizzazione, altre funzioni aziendali, altre correnti di partito, eccetera).

La seconda modalità, invece, consiste nel creare coesione attorno ad un progetto, ad un obiettivo, ad un “dover essere” persuasivo e motivante. Si tratta di un processo più lento, probabilmente più solido e inclusivo. Certo, questa modalità sottostà anche a quello che, in un ambito un po’ diverso, abbiamo definito “Il principio del progresso“. Non basta, cioè, stabilire un obiettivo coesivo, si deve anche comunicare costantemente un progresso al fine di mantenere alta la motivazione.

Non serve precisare come l’abilità del leader resta quella di dosare le due logiche, perché se è vero che di logica amico-nemico si può campare per un bel po’, gli effetti collaterali indesiderati non sono da poco:

  • reprimere il dissenso può significare creare una conflittualità latente che approfitterà della prima occasione per manifestarsi;
  • definire la propria identità soltanto per differenza rispetto al nemico vuole dire, comunque, non costruire un modello proprio che diventi un polo di attrazione di nuovo consenso, magari esterno rispetto alla cerchia iniziale. Si “incapsula”, cioè, l’identità del gruppo nella pura contrapposizione con il nemico;
  • non avere un polo di attrazione, ma soltanto un polo di repulsione potrebbe creare, nell’organizzazione, delle “schegge impazzite” che, se anche si applicano per infliggere delle perdite al nemico, non sanno però “fare squadra”.

Infine (ma forse questa è la cosa più importante), le organizzazioni che basano il loro consenso interno soltanto sulla logica amico-nemico spesso implodono in brevissimo tempo, quando il nemico sparisce o perché viene sconfitto definitivamente (infatti, capita  di osservare leader che preferiscono “mantenere in vita” un nemico proprio per non dover affrontare il problema della sua scomparsa), oppure perché qualcuno, anche dall’interno, inizia ad insinuare il dubbio che il mostro potrebbe non essere così brutto come lo si dipinge e che, a guardarlo meglio, si tratta più di un avversario che di un nemico.

 

Nota: questo post era apparso, pur se in forma un po’ diversa, sul blog “Crisi e sviluppo” di Manageritalia.
Visto che quella sezione non è più disponibile, l’ho ripreso qui.

Fare pace con il potere

Su HBR Italia di luglio/agosto, un articolo di Jeffrey Pfeffer (docente di Comportamento Organizzativo alla Graduate School of Business di Stanford) accende i riflettori (come ha fatto recentemente, in Italia, il libro di PierLuigi Celli “Comandare è fottere“, cui ho fatto cenno qui) sul tema del potere nelle organizzazioni.
La tesi è la stessa, non è possibile fare carriera o realizzare i propri obiettivi senza guardare in faccia alla scomoda realtà: per progredire è necessario ottenere ed esercitare potere.

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Professione speechwriter

In un bell’articolo su Newstatesman, Sophie Elmhirst rende conto di alcune interviste a famosi speechwriters, descrive questa professione e sottolinea le molte differenze nei modi in cui questo mestiere viene interpretato negli Stati Uniti rispetto alla Gran Bretagna.
Le pagine sono ricche di spunti interessanti.

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Potere, morale, ipocrisia

Già qualche tempo fa, ho messo in evidenza in questo post i meccanismi attraverso i quali il potere può corrompere i leader.
Sul numero in edicola di Mente & Cervello, Stefano Pisani dà conto di una ricerca effettuata all’Università di Tilburg, in Olanda e dalla Kellogg School of Management (Illinois), secondo la quale il potere rende scorretti e immorali.

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