Lo storytelling secondo Salmon
In questi giorni ho riletto alcune parti di Storytelling – La fabbrica delle storie di Christian Salmon.
Il titolo potrebbe ingannare. Questo non è un libro sullo storytelling, è un libro contro lo storytelling ed il suo uso nel marketing, in politica, nella pratica manageriale.
Si tratta di un libro profondo e provocatorio. Di quelli con cui confrontarsi più volte e prendendo i giusti tempi per la riflessione (da qui la rilettura estiva).
Salmon è diretto: a partire dagli anni ’90 la narrazione è stata trasformata da strumento di condivisione dei valori sociali e identitari in un’arma di persuasione di massa utile soltanto a vendere prodotti e idee facendo leva su meccanismi emotivi che hanno pericolosamente rimpiazzato il processo di scelta razionale.
Detto che sono d’accordo con alcune tesi di fondo (la più convincente: la politica si sarebbe trasformata da uno scontro tra ideologie in uno scontro tra narrazioni), mi viene, però, da sottolineare alcuni punti, e lasciarli alla riflessione di chi il libro lo ha già letto e di chi lo vorrà affrontare:
1. Nonostante si tratti, appunto, di un libro contro lo storytelling, la struttura delle argomentazioni è, per lunghi tratti, assai narrativa. Un emblema: per descrivere la comunicazione politica di George W. Bush durante le elezioni di metà mandato del novembre 2006 Salmon (citando Ira Chernus, docente dell’Università del Colorado) parla di “Strategia di Sharāzād”, basata su un semplice principio:
“Quando la politica vi condanna a morte, cominciate a raccontare storie – storie così favolose, così accattivanti, così ammalianti che il re (o in questo caso i cittadini americani che in teoria governano il nostro Paese) dimenticherà la vostra condanna a morte”.
Pare proprio che per criticare lo storytelling non si trovi di meglio che il ricorso alla narrazione, utilizzata, peraltro in maniera abile ed evocativa.
2. Nel libro vengono presentate (e a volte decontestualizzate) posizioni e idee circa l’uso della narrazione da cui vengono tratte deduzioni generali basate sull’estremizzazione (e sull’iper-semplificazione) di quelle stesse posizioni (qualcosa di molto simile allo straw man argument).
Un esempio:
Alcuni teorici del management, come David R. Boje, le definiscono storytelling organizations, che si potrebbe tradurre con “imprese che raccontano” o “recitanti” per indicare la funzione strutturante che vi svolge lo storytelling.
“Ogni luogo di lavoro, scuola, servizio pubblico o gruppo religioso locale è una storytelling organization. Ogni organizzazione, dalla semplice impresa di forniture per uffici e dal McDonald’s di quartiere, fino alle organizzazioni che fanno sognare, come la Disney e la Nike, o alle più scandalose come la Enron o Arthur Andersen, sono delle storytelling organizations”.[…]
Il commento di Salmon:
Lo storytelling è dunque un’operazione più complessa di quanto si potrebbe credere a prima vista: non si tratta soltanto di “raccontare storie” ai dipendenti, di nascondere la realtà con un velo di invenzioni ingannevoli, ma anche di far condividere un insieme di credenze atte a suscitare l’adesione e di orientare i flussi di emozioni, di creare insomma un mito collettivo vincolante.
Scrive David Boje:
“Le storie possono essere prigioni […]
Non conosco nel dettaglio le posizioni di Boje e ne parlo, quindi, soltanto per come appaiono in questo spezzone del libro. La sensazione è che le sue affermazioni vengano “stirate” e semplificate in modo da rinforzare la tesi dell’autore.
3. Salmon individua negli anni ’90 il momento in cui l’uso dello storytelling compie un vero e proprio salto qualitativo, passando dall’età dell’innocenza ad un uso manipolatorio ed eticamente discutibile. A me pare, invece, che più che di un salto di qualità si tratti di un salto di quantità e magari (questo sì) di campi di applicazione. Questo però non significa che le tecniche e gli usi manipolatori dello storytelling non fossero già ampiamente presenti e documentati.
4. Infine (questo è il punto più difficile da sintetizzare, ma anche quello su cui nutro le maggiori perplessità), Salmon sembra identificare lo storytelling con il suo uso a fini di persuasione e punta tutta la sua vis polemica sul fatto che la narrazione sia uno strumento particolarmente affilato per occultare la verità.
Condivido il ragionamento sulla potenza dello strumento. Le ragioni le trovate qui.
Ma di uno strumento, appunto, si tratta.
Voglio dire, se il confine è quello tra verità e menzogna, allora lo stesso vale per qualsiasi tipo di argomentazione (numeri, statistiche e altre tipologie di argomento razionale compresi).
Chi sostiene che un numero sia meno manipolabile di una storia, probabilmente non conosce il dibattito politico in Italia.
In sintesi, mi pare si punti il dito contro lo strumento quando in realtà l’obiettivo è un altro e ha a che vedere con terreni ben più scivolosi.
In più, chi si occupa di narrazioni, per mestiere o per passione, sa bene che le funzioni della narrazione non si limitano a incapsulare dentro ad una trama un messaggio che, così confezionato, accresce la sua forza di penetrazione facendo leva su alcuni elementi centrali della nostra storia evolutiva.
C’è un’altra funzione della narrazione (e anch’essa viene ampiamente utilizzata negli stessi contesti che descrive Salmon), ed è quella di rompere la capsula del messaggio, esporre il messaggio stesso a meccanismi che proprio attraverso lo storytelling ne arricchiscano il senso.
Una funzione che, al contrario della prima, serve ad allargare invece che a definire e confinare. A tutto questo il libro di Salmon non mi pare faccia alcun cenno.
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