Obama e McCain: stili decisionali a confronto

Su The Boston Globe, un articolo piuttosto interessante getta una luce diversa sull’elezione di Barak Obama.
Secondo Jonah Lehrer, il 4 novembre scorso, non si sono confrontati soltanto due partiti, due ideologie, due visioni del mondo, ma anche due modi diversi di affrontare il processo di decision making.

Già George W. Bush aveva più volte illustrato il suo modo di decidere: “Sono un decisore di pancia. Mi fido dei miei istinti”. Bush, quindi, crede nel potere dell’intuizione.
Ironia della sorte, proprio durante questi anni si è sviluppata un’ampia letteratura che dimostra l’importanza dell’intuizione nell’assunzione di decisioni complesse. A dire il vero, si sono anche chiariti i rischi di questo approccio al decision making, e si affermato come ascoltare il proprio istinto sia soltanto una parte di una strategia che consenta di assumere buone decisioni. Un’altra parte importante ha a che vedere con la metacognizione, cioè con la capacità di riflettere sul nostro modo di pensare. Se le persone non sono in grado di riflettere su come assumono una decisione importante, non saranno in grado di utilizzare in maniera produttiva il proprio istinto e di capire quando non gli va dato ascolto. Infatti, secondo questa visione del processo di decision making, il miglior preludio ad una buona decisione non è l’intuizione, o l’esperienza, oppure l’intelligenza. Piuttosto, è la volontà di impegnarsi nell’introspezione, nel coltivare ciò che Philip Tetlock chiama “l’arte dell’auto-ascolto”.

Istinto o ragione?

Tornando alle elezioni americane, secondo Lehrer John McCain e Barak Obama hanno presentato due approcci al decision making decisamente diversi: il primo (pur essendosi differenziato da Bush per molti aspetti) ha ricalcato il processo decisionale del predecessore, ascrivendosi con orgoglio tra coloro che si lasciano guidare dal proprio istinto.

Il secondo, invece, è apparso come un decisore più razionale: nel suo caso le emozioni non sembrano avere una parte rilevante nel processo decisionale.
Un confronto, dunque, che non riguarda soltanto idee e politiche, ma anche stili cognitivi.

È opinione diffusa tra gli studiosi che entrambi questi approcci possano essere sorprendentemente efficaci, ma anche sorprendentemente fallaci.

La soluzione di questo dilemma prospettata nell’articolo mi pare davvero interessante (non soltanto per un presidente degli Stati Uniti, ma anche, più modestamente, per un manager o un leader di un’organizzazione):

    Uno dei modi migliori per un presidente per mantenere il controllo del processo di decision making è quello di circondarsi di consiglieri pronti a criticare le sue decisioni. “Gli psicologi passano un sacco di tempo puntando l’attenzione sulle capacità individuali,” sostiene Jonathan Haidt, uno psicologo sociale dell’Università della Virginia. “Ma la cosa forse più importante è il tipo di ambiente che si crea attorno ad un presidente. Un leader che incoraggi la differenza di punti di vista” – e Haidt sostiene che i presidenti dovrebbero avere dei gabinetti con rappresentanti di entrambi i partiti – “è sulla buona strada per assumere buone decisioni”.

Mi pare in linea con quanto dicevamo qui.

E voi, che tipo di decisori siete, e da che tipo di persone vi piace essere circondati?

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