Quel che le business school dovrebbero insegnare

Sul suo blog su bplans, Tim Barry ha avviato un dibattito interessante sul ruolo che le business school rivestono (e dovrebbero / potrebbero) rivestire nello sviluppo dell’imprenditorialità.

Si stanno susseguendo una serie di post piuttosto interessanti.

Ne riassumo un paio nei quali Tim Barry elenca 5 insegnamenti base che le business school possono trasmettere e altri 5 insegnamenti che dovrebbero trasmettere, ma che presentano una serie di difficoltà, per le quali viene da chiedersi se un’aula sia il luogo adatto dove impartirli.

Ecco gli elenchi.

I 5 insegnamenti base che le business school possono trasmettere

  1. Il cash flow
    Il concetto di cash flow è critico ma non intuitivo. Impararlo in classe è meglio che impararlo sul campo.
  2. Il business planning
    Creare un business plan è un buon modo per vedere un business nella sua articolazione, complessità, completezza.
    Ed anche per insegnarla, questa articolazione.
    Questo, però,  non significa necessariamente confrontarsi con modelli estremamente complessi.
  3. I business fundamentals
    Non va sottovalutato il ruolo dei fondamentali: strategia, marketing, raccolta dati, finanza, pensiero analitico.
    Con l’attenzione di insegnare come tradurre i concetti in numeri e viceversa.
  4. Le capacità di comunicazione
    Sia nello scritto che davanti a un pubblico, l’importanza della capacità di trasmettere le proprie idee viene spesso sottostimata.
  5. Scetticismo
    Una buona business education dovrebbe insegnare anche a che cosa non credere, e perché.

I 5 insegnamenti che le business school non trasmettono

  1. I comportamenti da tenere con le persone
    La domanda è: si può veramente insegnare alle persone l’empatia?
    È davvero possibile imparare come una persone si sente mentre siede davanti a te?
  2. Che cosa è giusto e che cosa è sbagliato
    Il tema etico è entrato prepotentemente nel dibattito, e spesso anche nei programmi delle business school.
    Ma è così difficile conciliare le diverse visioni, i diversi vincoli sociali e politici, i diversi significati della parola etica da fare pensare che tradurre tutto ciò in insegnamento sia impresa davvero ardua.
  3. Avere una vita
    È possibile pensare che le business school insegnino non soltanto la passione e l’entusiasmo di iniziare una nuova iniziativa imprenditoriale, ma anche la capacità di dare il giusto ordine di priorità alle questioni professionali rispetto allo sviluppo di una vita privata appagante?
  4. Gestire il rischio
    Non da un punto di vista tecnico. Questo la maggior parte delle business school lo fa.
    Piuttosto, la capacità di non assumersi rischi di cui non si è in grado di gestire le conseguenze.
  5. Quando persistere e quando mollare
    Una delle cose più difficili da valutare, in ottica imprenditoriale e di start-up, è fino a che punto rimanere fedeli ad un business plan e quando, invece, arriva il momento di apportare modifiche sostanziali e di cercare alternative.
    È una questione difficile da tradurre in modelli validi per tutte le occasioni. Si tratta di educare una sensibilità ai mutamenti di scenario, alla generazione di alternative, e al non innamorarsi troppo (ma nemmeno troppo poco) dei propri piani.

Il pensiero finale di Tim Barry, su questi ultimi cinque punti, ha a che vedere con un metodo che consenta di toccare questi argomenti in una business school.
Secondo lui il modo migliore per farlo è quello di raccontare storie: storie di fallimenti, di problemi, di sfide.
E, se a raccontarle è direttamente colui che le ha vissute, tanto di guadagnato.
Storie vere, raccontate dai protagonisti, sono anche meglio dei business case.

Il mio commento: la questione del compito della business education e dei suoi obiettivi è annosa e complessa.
Il piano del che cosa (temi) e il piano del come (metodi) della formazione manageriale si confondono e si intrecciano.
Entrambi dovrebbero convergere verso le metacompetenze. Soft skill e complessità sono snodi fondamentali, in questo senso.
Quanto scritto nel mio commento a questo post sembra trovare alcune conferme nel ragionamento di Tim Barry.

E voi, che cosa ne pensate?

2 commenti
  1. Paola Bonavolontà dice:

    ci stiamo arrivando anche in Italia…

    anche se chi insegna le soft skills a volte nn ne sa nulla di azienda.
    chi è in azienda nn crede possano essere utili soft skills.

    Io ho sentito il bisogno di integrare le mie due passioni comunicazione personale e aziendale…e vivo meglio.

  2. Luca Baiguini dice:

    In effetti, questa incomunicabilità che tu descrivi è vera.
    Permettimi di aggiungere, provocatoriamente, che chi insegna soft skills spesso ne sa poco anche di… soft skills!

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