Il venditore ed il problema del talento
Sul terzo numero di Vendere di più, un mio articolo sulla relazione tra talento e successo, con l’attenzione focalizzata alla figura del venditore.
Eccolo.
Venditore si nasce?
Ovvero, del problema del talento e del quoziente d’intelligenza, per capire se quando investire su un aspirante venditore. Fino a un certo punto…
Molti tra i venditori con cui mi è capitato di confrontarmi si sono detti convinti che “venditori si nasce”.
Questo non significa che non ci siano spazi per una continua crescita professionale – chi comprerebbe, altrimenti, una rivista come questa?
Ma, per portare a risultati davvero interessanti, questa crescita si deve innestare su un “talento” innato, e la probabilità di successo è direttamente proporzionale a questo stesso talento.
Di conseguenza, più è sviluppato il talento personale per la vendita (inteso come capacità di entrare in relazione rapidamente, di persuadere, di condurre il gioco del processo decisionale) più è probabile che un buon processo di apprendimento porterà a formare un venditore efficace.
Questa convinzione assume un ruolo centrale soprattutto quando da venditori si diventa veri e propri imprenditori commerciali.
A quel punto, la scelta più difficile è proprio quella di selezionare dei collaboratori “junior” da far crescere nella struttura.
E le domande chiave diventano:
- quanto conta, realmente, il talento?
- è proprio così vero che al crescere del talento crescono le probabilità di successo?
- si tratta semplicemente di una relazione lineare (più talento uguale a più probabilità di successo), oppure la questione è più complicata?
Non so a voi, ma a me sembrano domande intriganti.
Nel suo libro “Outliers” (Fuoriclasse. Storia naturale del successo, nella traduzione italiana per Mondadori), Malcolm Gladwell ci offre qualche spunto interessante proprio su questo tema.
Uno dei concetti che più mi ha incuriosito è quello della relazione tra Quoziente d’Intelligenza e successo.
La domanda è: chi ha un elevato Q.I. ha più probabilità di avere successo nella vita reale?
Che, per come la vedo io, è un po’ come chiedersi: chi ha un talento naturale per le relazioni, per la comunicazione, per la persuasione, avrà successo come venditore?
E la risposta di Gladwell è, letteralmente, “Sì, ma fino ad un certo punto”.
Mi spiego: se misuriamo il Quoziente d’Intelligenza di un gruppo di persone (per esempio, con le Matrici di Raven), e consideriamo che il Q.I. medio abbia un valore pari a 100, a questo punto sappiamo che un valore inferiore a 70 denota persone mentalmente incapaci, un valore un po’ superiore a 100 è il minimo per riuscire a superare degli esami universitari, un valore pari a 115 è necessario per essere ammessi ad un corso post-laurea dove ci sia un po’ di competizione.
Le ricerche empiriche in questo campo dimostrano come al crescere del Q.I. crescono scolarizzazione, reddito e perfino durata media della vita.
Sembrerebbe, quindi, che esista una relazione tra intelligenza misurata dal Q.I. e successo.
Il problema è che questa relazione è valida soltanto fino ad un certo livello di soglia.
E questo livello è identificato con un valore di circa 120.
Oltre questo valore la relazione non sembra avere più alcuna validità.
Se, quindi, una persona con Q.I. di 120 ha molte maggiori probabilità di avere successo rispetto ad una con un valore di 100, lo stesso non vale per una persona con un valore di 140 rispetto ad una con valore 120.
Oltre la soglia, l’aggiunta di ulteriore intelligenza non sembra fornire un vantaggio tangibile.
Per usare le parole dello psicologo britannico Liam Hudson (citato dallo stesso Gladwell):
“È ampiamente dimostrato che, se una persona ha un quoziente di intelligenza pari a 170, le sue capacità di ragionamento saranno più sviluppate di quelle della persona con un QI di 70, e ciò è tanto più vero quando il paragone viene fatto tra risultati più prossimi, per esempio tra 100 e 130. Sembra tuttavia che il rapporto si interrompa quando si mettono a confronto due persone con un QI relativamente alto… uno scienziato maturo con un QI di 130 ha le stesse probabilità di vincere il Nobel di un suo collega che vanta un QI di 180”.
Non serve, quindi, essere dei geni assoluti per vincere il Nobel.
Serve essere intelligenti quel tanto che basta. Per il resto, la differenza la faranno altri fattori (di cui, non ultimo, la fortuna).
Ho discusso di questo concetto durante una sessione formativa qualche tempo fa, nella quale si era posto in questi termini il problema del talento: per valutare quanto investire (in formazione, affiancamento, incentivi, eccetera) su un collaboratore (nel nostro caso, per esempio, un venditore junior), le doti innate sono un buon indicatore?
Sono un fattore che ci permette di prevedere il suo successo futuro?
Più sono elevate e più vale la pena di investire?
La risposta è:
Sì, ma fino a un certo punto.
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