Pit-stop

Su Harvar Business Review Italia dello scorso Aprile , un articolo di Heike Bruch e Jochen I. Menges (con anche un bel commento di Roberto Quaglia), illustra come il richiedere ai propri collaboratori il massimo impegno per periodi prolungati possa impattare in maniera molto negativa sulla performance aziendale, e come molte aziende si prendano dei veri e propri pit-stop, momenti nei quali rallentare il ritmo è non soltanto consentito, ma auspicato.
Durante alcuni corsi recenti ho riflettuto a lungo sul fatto che lo stress derivi proprio dalla sensazione di essere intrappolati in una specie di gabbia dei criceti, in cui non esistono momenti di rallentamento e pausa.

Bruch e Menges propongono all’attenzione una serie di esempi su come il circolo vizioso di quella che che lo chiamano la “trappola dell’accelerazione” sia stato rotto in molto organizzazioni.
Ecco il loro suggerimenti:

Come liberarsi dalla trappola

  • Fermare l’azione.
    Invece che chiedere ai collaboratori quali nuovi progetti intraprendere per migliorare la performance e l’azienda, perché non chiedere loro quali progetti interrompere, ponendo domande del tipo “Quale delle nostre attività attuali avvieremmo adesso se non fossero già in corso?” e poi interrompendo tutte le altre.
  • Chiarire la strategia.
    Indipendentemente da chi siano gli sponsor di un progetto, se non è in linea con la strategia e non la supporta, dovrebbe essere tagliato.
  • Decidere come prendere le decisioni.
    Non tutti i progetti che sono in linea con la strategia sono importanti, per questo ci si deve preparare anche a scelte difficili.
    Interessante l’esempio di Phoenix Contact (azienda tedesca di tecnologia elettrica ed elettronica), nella quale fu chiesto ai manager di classificare i progetti in corso in tre famiglie A = necessari, B = importanti ma rinviabili, C = rinviabili per almeno due anni o sacrificabili. Di fronte a questa scelta, però, le persone dichiaravano di avere una maggioranza di progetti A. Allora fu chiesto loro di dividerli in A1, A2, A3. Mi ricorda un po’ il piano di Sindrome che ho illustrato qui.
  • Dichiarare conclusa l’emergenza.
    Spesso la comunicazione del top management è del tipo “siamo in un’emergenza permanente”. Dichiarare finita un’emergenza può avere un effetto liberatorio.

Come non ricascarci

  • Istituzionalizzare momenti in cui le iniziative in corso vengono vagliate e selezionate.
  • Mettere un tetto massimo al numero annuo di obiettivi.
  • Filtrare i nuovi progetti.
  • Introdurre una cultura della “sepoltura”, che incoraggi ad abbandonare i progetti meno importanti, senza per questo minare l’entusiasmo di coloro che vi hanno lavorato.

Come cambiare la cultura dell’accelerazione

  • Concentrarsi per un periodo definito su un unico obiettivo.
  • Fare delle soste.
    In Hilti il personale è chiamato a partecipare regolarmente a team camp di due giorni in cui si riflette per tornare alle proprie occupazioni, e viene incoraggiato a trovare anche singolarmente questi tipi di momenti.
    Mi torna in mente quanto scritto qui sull’esperimento fatto in Boston Consulting Group.
  • Rallentare prima di accelerare, alternando momenti ad alta tensione con momenti in cui l’obiettivo si quello di ricaricare le energie.
  • Godersi i successi.
  • Dare l’esempio, come ha fatto Bill Gates, che ogni primavera ed ogni autunno si ritirava in un cottage per una “settimana di riflessione” nella quale portava con sé i suggerimenti dei propri collaboratori.

Il focus degli autori è sulle organizzazioni, ma credo che questi “suggerimenti di buon senso” possano essere traslati pari pari anche al singolo.

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