Una domanda su leadership e competenze

Su Il Sole 24 Ore dello scorso 20 agosto, un articolo di Giuseppe Berta mi ha incuriosito.
Titolo: I nuovi modelli di management alla scuola di Detroit
Sottotitolo: La scuola dei manager non auto

Vi sottopongo un paio di passaggi in particolare:

Alan Mulally alla Ford, Sergio Marchionne alla Chrsyler e ora Akerson alla Gm impersonano, benché in modo diverso, originali orientamenti manageriali che, se continueranno ad avere successo, non mancheranno di condizionare in generale i criteri di gestione dell’impresa. Tutti e tre questi manager hanno in comune il fatto che non si sono formati all’interno dell’industria dell’automobile. Ci sono arrivati quando disponevano ormai di una consolidata esperienza gestionale e non erano dunque influenzabili dalle procedure e, peggio ancora, dalle ritualità prevalenti entro le imprese del settore. Li avvicina anche l’essere portatori di una spinta a cambiare in profondità il modo di operare delle realtà che sono stati chiamati a dirigere. Contrariamente al passato, quando il management usciva da una cultura d’impresa sedimentata nel tempo, a cui aderiva strettamente, ai nuovi manager è stata affidata la responsabilità di trasformare alla radice il comportamento aziendale. […]

Condizioni così difficili, in un ambiente caratterizzato da un’altissima competizione, rendono nuovamente l’industria dell’auto un terreno privilegiato di elaborazione strategica. Ecco perché le imprese del settore diventano un’altra volta fucine di innovazione manageriale.

Mi hanno colpito questi due passaggi perché mi pare abbiano a che vedere con una domanda che mi è stata fatta da un lettore di questo blog qualche giorno prima di “chiudere per ferie” e che vi ripropongo pari pari:

Gentile Professore,

sono con la seguente a rivolgerLe una domanda che mi sta particolarmente a cuore. […]

Qual è la logica sottostante al fatto che un capo, un referente o comunque una persona che coordina un ufficio, una squadra di lavoro, un’ equipe, etc. non necessita di conoscere in maniera dettagliata un’attività?

O, per dirla in un altro modo:

È giusto e corretto che chi assume la leadership di un gruppo di lavoro non conosca in maniera dettagliata le attività ed i “contenuti” del lavoro stesso?

Forse non c’è una risposta assoluta e definitiva a questa domanda.
Credo che esistano delle condizioni che rendono questo non avere troppa dimestichezza con l’operatività un vantaggio, altre che, al contrario, lo rendono un ostacolo.

L’articolo di Giuseppe Berta potrebbe suggerire che, quando c’è bisogno di un cambio di paradigma, uno sguardo alto ed esterno può fare la differenza in positivo.

La questione, però, mi pare davvero meritevole di ulteriori riflessioni.

Vi invito a dire la vostra, a portare esempi ed esperienze.

26 commenti
  1. riccio dice:

    caro Luca, sono 10 anni che sperimento sulla pelle questa situazione.
    Dopo i miei studi totalmente umanistici(liceo e giurisprudenza), mi sono trovato ad avere il ruolo di responsabile di progetti di Innovazione tecnologica. In questo campo, forse ancor di più di altri, l’essere cresciuto nell’alveo della materia crea problemi: coloro che hanno lavorato nell’ambito dei CED hanno il vizio di ricondurre il tutto alla tecnologia mentre un approccio più umanistico porta a ad un’astrazione che aiuta alla definizione dei veri obiettivi. D’altronde la definizione inglese è chiara: Tecnologia dell’Innovazione e della Comunicazione, mentre in Italia siamo abituati a semplificare con il termine informatica.
    Condivido pertanto l’affermazione che “uno sguardo alto ed esterno può fare la differenza in positivo.”
    Certo è necessaria la disponibilità a voler capire e l’umiltà di considerarsi semplicemente degli organizzatori senza voler intromettersi in campi per i quali ci sono altri collaboratori che hanno studiato anni. E’ importante pertanto la consapevolezza che anche se responsabili si è in un gruppo di lavoro nel quale deve valere non tanto il principio gerarchico quanto il rispetto delle reciproche competenze. E’ la squadra che fa la differenza. È giusto e corretto che chi assume la leadership di un gruppo di lavoro sappia come gestire i rapporti tra i soggetti del gruppo mantenendo sempre chiari gli obiettivi da raggiungere.

  2. stefano gatti dice:

    Questo è uno dei nodi più intricati del management …
    Per la mia esperienza non esiste una risposta assoluta poichè le capacità manageriali di un individuo non sono in correlazione con le conoscenze delle attività dell’azienda in cui esercita il management. E’ più importante imparare a conoscere “l’ambiente” in cui ci si muove piuttosto che le competenze tecniche di dettaglio. Chiaro che una azienda di sviluppo informatico è diversa da una azienda di produzione di materie plastiche: avere un approccio sistemico è fondamentale soprattutto all’inizio per poi, se necessario e magari a macchia di leopardo, effettuare dei carotaggi e cercare di entrare nel merito tecnico. In sintesi per essere un leader bisogna essere prima manager e poi anche “tecnici”.

  3. Marco Fraquelli dice:

    Credo che il ruolo di coordinatori capi ecc. sia quello di conoscere al meglio il processo per arrivare a quanto richiesto, ed inoltre essere capaci di cambiare strada quando serve. E’ per quest’ultima capacità che secondo me è necessario comunque avere un buon livello di conoscenze specifiche ecc.

    Ciao

  4. Luca dice:

    Caro Luca,

    Penso che un buon capo, un buon manager debba essere bravo a leggere le situazioni in corso d’opera…e trovare i giusti correttivi per raggiungere gli obiettivi richiesti dall’azienda.

    Saper fare un determinato mestiere in fase puramente operativa puo’ talvolta aiutare ma, non credo sia indispensabile.

    Pensa a questo esempio: ci sono grandi allenatori che non hanno mai giocato a calcio ad alti livelli ma hanno più successo in panchina di grandi fuoriclasse.

    A presto

    Luca

  5. Alberto Bonadei dice:

    In ventuno anni di attività come promotore finanziario, di cui 11 anche con funzioni manageriali, posso dire che per quanto mi riguarda la necessita di accettazzione e interpretazione del cambiamento è in costante aumento. Dalle positive risoluzioni delle nuove realtà che ci si presentano deriva la reiterazione del successo mio e dei colleghi che coordino.
    Ho visto avvicendarsi molti direttori vendite, direttori commerciali e amministratori delegati; quelli che hanno saputo dare veramente più valore aggiunto all’azienda univano (e per fortuna uniscono) carisma, capacità di acolto e chiara visione sulla direzione verso cui andare. E’ vero quando arrivavano non sempre erano “specialisti di prodotto”, certamente quando se ne andavano conoscevano tutto a menadito!

  6. Luca Baiguini dice:

    Grazie Alberto.
    Se non ci sono le competenze di prodotto, non deve mancare la voglia di imparare e “sporcarsi le mani” quando necessario.
    Interessante…

  7. giulia cerrone dice:

    dibattito interessante che incrocia una delle mie attività di questo periodo. (consulenza esterna e formazione per un delicato passaggio di trasformazione di una piccola azienda).
    Posso quindi portare nel vostro dibattito una piccola riflessione “dal campo”.
    Penso che nei processi di innovazione e cambiamento le persone (e la complessità delle loro relazioni, il peso delle loro abitudini etc..) costituiscano una variabile fondamentale, capace di favorire o affossare la trasformazione.
    Secondo me c’è una fase in cui la competenza fondamentale è la capacità di leggere il contesto, individuare i nodi problematici, inventare soluzioni alternative e in questa fase le competenze di prodotto non sono, secondo me,così fondamentali. Anzi lo sguardo esterno può essere un vantaggio: più libertà rispetto a schemi consolidati. A patto che chi guida il processo sappia leggere il contesto (ciò presuppone anche competenze specifiche o la capacità di trovare chi possa fare da “guida”), ma soprattutto interagire con esso, creare una ‘zona di fiducia’ Ciò non può avvenire senza un interesse autentico. Che significa appunto, come dice Luca, ‘sporcarsi le mani’, essere curiosi e aver voglia di imparare.
    Che è la parte più divertente

  8. Roberta dice:

    Dal punto di vista del comparto mi terrorizza il pensiero che chi mi governa non capisce un tubo del lavoro che faccio; non dubito che abbia voglia di imparare e “sporcarsi le mani” ma se devo seguire un indirizzo preferisco chi è del settore, e non mi basta, voglio anche che sia uno “bravo” con la mente aperta, che mi consulti, mi lasci proporre soluzioni e mi dia modo di sperimentarle, tutelando solo i lavoratori e l’azienda da pericoli e rischi che magari io non saprei prevedere. scusate se è poco!

  9. Luca Baiguini dice:

    Grazie Roberta per il tuo commento.
    Credo che spesso apertura mentale e conoscenza dettagliata non siano buone amiche, e che la tendenza a crearsi dei tunnel mentali sia “il lato oscuro” della competenza.
    ciao

  10. stefano dice:

    Aggiungo in questo interessante scambio di idee su questo argomento che spesso chi conosce troppo il dettaglio tende (anche se non si può generalizzare in assoluto …) a perdere la visione “sistemica” che è fondamentale per un manager

  11. Luca Baiguini dice:

    Il gioco tra chunking up (dal particolare al generale) e chunking down, infatti, è una delle abilità su cui mi concentro spesso nelle sessioni formative sulla leadership

  12. Roberta dice:

    Jim Collins nel libro “O meglio o niente”, nel capitolo del “leader di livello 5″ dice che nella sua ricerca sui leader che avevano portato aziende buone ad un livello eccellente, 9 volte su 10 venivano dall’interno dell’azienda (Darwin Smith, Colman Mockler, Georg Cain)e diffida dei CEO che arrivano con grandi squilli di tromba, ben piantati sul cavallo bianco, chiamati a salvare la malcapitata azienda, dietro compensi (quelli si) da mille e una notte:
    ” Essere la persona giusta ha più a che fare con la personalità e le capacità innate che con competenze specifiche, esperienze o abilità”
    Consiglio vivamente quella lettura.
    Ciao.

  13. Roberta dice:

    Jim Collins in “O meglio o niente” rivela che nei suoi studi sulle caratteristiche dei CEO che hanno saputo traghettare le aziende mediocri verso l’eccellenza, 10 su 11 venivano dall’interno dell’azienda, spesso non erano strapagati ed erano figure quasi sconosciute ai più. Inoltre, sempre secondo Collins, essere la persona giusta ha spesso a che fare con doti personali, spesso innate, e non competenze specifiche, esperienze o abilità.
    Interessante vero?

  14. Luigi Mengato dice:

    Ciao Luca,
    io direi semplicemente che il vantaggio maggiore che posso avere se non sono immerso in modo dettagliato nelle attività è che mi posso concentrare su “COME” sono state svolte le azioni, e non su “COSA” è stato fatto.
    Generalizzando, penso che un Leader presti molta attenzione al “COME”, un manager al “COSA”.
    Un saluto.

  15. Rosario Carnovale dice:

    Ciao a tutti, qualche spunto dalla mia esperienza…

    la bravura di un capo sia esperto sia “nuovo” del mestiere sta nel riuscire comunque a capire chiaramente i benefici del cambiamento e successivamente e soprattutto “venderli” all’interno dell’organizzazione. Il caso FIAT/Marchionne, anche in questi giorni,è abbastanza emblematica…

  16. Luca Baiguini dice:

    Grazie Rosario e Luigi.
    In effetti, l’attenzione agli elementi di struttura piuttosto che a quelli di contenuto è una di quelle tematiche che in questo periodo (come vedete anche dalle riflessioni di questo blog) mi frulla in testa parecchio…

  17. Alessandra dice:

    Buonasera Luca, mi avvicino a te e al tuo sito per la prima volta con molto interesse. Per dare il mio contributo alla domanda, io credo che tutto stia nel luogo comune che classifica le competenze manageriali come una conseguenza di quelle tecniche, cioè vieni scelto per essere capo di un gruppo sulla base delle tue conoscenze tecniche…non per quelle manageriali, visto che naturalmente non hai ancora avuto modo di esercitarle…tanto meno nessuno te le insegnerà mai veramente, visto che non si insegnano, ma si scopre di averle…o di non averle. Allora…fare il capo è un mestiere, esattamente come fare lo specialista tecnico dalla struttura diretta da tale capo. Dirò di più, essere un buon capo implica doti non comuni, attitudine, fiuto…ed è legato all’intangibile, all’impalpabile,…non alle technicalities di quanto deve essere diretto.E’ la visione d’insieme che fa la differenza, così come la capacità di valorizzare chi, invece, conosce le technicalities.Buona serata. Ale

  18. Pasquale dice:

    Salve, la penso proprio come Alessandra. Non lavoro in una multinazionale ne alla borsa ma avere e gestire un bar credo segua le stesse linee guida. Sono il leader ed il manager di un piccolo bar di un piccolo comune ma ne ho fatto un’attività eccezionale proprio per esser riuscito a guadagnarmi il ruolo di “regista” trovando a tutti il ruolo adatto ed esser stato capace di dare fiducia e motivazione.

  19. Domenico Stigliani dice:

    A mio parere il miglior leader è quello che raggiunge l’obiettivo e basta.
    Dalle mie esperienze, posso dire che i capi migliori sono stati quelli che pensavano ad alto livello e non avevano nessuna paura a scendere fino al minimo dettaglio tecnico per capire il problema, pur non avendo le competenze dello specialista.

    Insomma: “il generale pensa meglio degli altri, ma quando c’è bisogno imbraccia il fucile”

  20. Gianni dice:

    ciao a Tutti,
    in italia io ho trovato raramente una cultura manageriale tale da affidare , sopratutto nelle PMI, la responsabilità a chi è manager di formazione e non a chi viene dalla linea di produzione o dalla concorrenza,
    questa crisi aiuterà gli imprenditori a capirlo?
    /g

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