Contro le convinzioni, simboli
Leggo Wired. Il login di Riccardo Luna, sempre (a proposito, ha annunciato che lascerà, e questo mi dispiace).
Nel numero di maggio, si parla di immigrati.
È un tema che non ha molto a che vedere con gli argomenti di questo blog.
Come lo ha affrontato Luna, però, sì.
Si è chiesto quali argomentazioni usare quando si incontra qualcuno che, gli immigrati, li vede come una disgrazia, uno che, per citare testualmente “diversamente da voi non abbia capito che gli immigrati sono un piccolo problema logistico da risolvere se ti chiami Italia e insieme una grande benedizione per un paese vecchio e stanco come il nostro”.
Quante volte è capitato di affrontare discussioni come questa. I temi sono i più diversi. L’impressione, molto spesso, è quella che le argomentazioni sbattano contro muri di gomma (lo dico sia che la discussione la si affronti da una parte, che da quell’altra della barricata, beninteso). Deve essere successo anche a Riccardo Luna, se scrive:
E queste persone non le convincerete mail con la mozione degli affetti, la pietà umana o con il ricordo dei nostri trenta milioni di emigranti. Parlategli invece di soldi. Ditegli che gli immigrati già oggi pagano le pensioni ai nostri genitori e ai nostri nonni. Non è uno slogan, è un fatto. Ditegli che senza stranieri già oggi l’Italia resterebbe senza la metà dei pescatori, muratori, tate, colf….
Eccetera.
Si tratta, in buona sostanza, dell’indicazione di una strategia di persuasione. La base di questa strategia è: non parlate di valori (affetti, pietà) o di argomentazioni che non toccano direttamente (i nostri trenta milioni di emigranti). Parlate di denaro, di lavori che nessuno vuole fare più, dei dati sull’invecchiamento della popolazione.
È una strategia su cui vale la pena una riflessione.
Quando si affrontano tematiche come queste, che scavano a fondo nei valori e nelle convinzioni (lo stesso Riccardo Luna lo dice: molto spesso sotto a queste convinzioni ci sta una “umanissima paura”), il confirmation bias la fa da padrone.
Qualsiasi argomentazione che faccia appello ad una visione della realtà basata sulla statistica e sui numeri (oggettivando, quindi, la discussione) ha una presa molto scarsa, con buona pace di chi vorrebbe (probabilmente a ragione) il contrario. Quando in gioco ci sono i valori e le convinzioni, molto meglio delle statistiche fanno i simboli: singole persone o storie (che, magari, di quelle statistiche sono rapresentative) che possano essere il paradigma dell’argomentazione che si pone sul tavolo. Mi spiego meglio con un esempio: di fronte all’affermazione che gli immigrati portano criminalità, la dimostrazione statistica della non veridicità dell’affermazione (se ce n’è una…) ha uno scarsissimo impatto in ottica di persuasione.
Molto di più serve il portare simboli (condivisi anche con gli interlocutori, magari perché conosciuti) di immigrati che, onestamente, si guadagnano il pane.
In questo senso, è vero che è inutile parlare dei trenta milioni di emigranti: tra questi se ne deve scegliere uno, che li rappresenti. E, magari, raccontarne la storia. Ma è altrattanto inutile parlare di soldi, o di pescatori, muratori, tate, colf.
Il simbolo, in dinamiche di questo tipo, ha il compito di scardinare il meccanismo che sta alla base di questo tipo di discussioni: la generalizzazione.
Rispondere a generalizzazioni con altre generalizzazioni, in genere, porta a scarsi risultati.
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