Battaglie (parecchio) di retroguardia
Periodo di operatività incombente. Quel che c’è da leggere si accumula in cartella, in attesa di tempi più tranquilli (o della volontà vera di renderli più tranquilli). Tra queste, la Domenica de Il Sole 24 Ore. Un’occhiata vale sempre la pena. Di solito anche due.
Così ho visto soltanto oggi il numero del 30 marzo scorso.
C’è un articolo di Leonardo Padura Fuentes sul self-publishing. Meglio, contro il self-publishing.
L’argomento, naturalmente, è quello della qualità:
L’eliminazione dell’editore, che per molti appare quasi come una benedizione, nasconde una botola che potrebbe non avere fondo. Perché fin da quando nel diciannovesimo secolo si affermò il modello di mercato editoriale che con pochi cambiamenti è esistito fino ad adesso, la figura dell’editore e il sostegno di un marchio editoriale bene o male hanno sempre rappresentato una forma di legittimazione dell’opera e dell’autore. Questa legittimazione offriva al lettore una garanzia minima – a volte persino massima – di serietà e qualità, indipendentemente dai diversi gusti personali.
E ancora, l’inquietante scenario futuro:
E in quel mare procelloso e super-popolato chi ci aiuterà ad orientarci? Scrittori veri, scrittori per desiderio, scrittori per vanità e tutti quelli che pretendono e si propongono di esserlo per una qualsiasi ragione o l’altra: fluttueremo tutti insieme?
Questo è il panorama. È verso questo mondo con molte poche leggi, come il Far West, che va la letteratura, in questi tempi in cui stiamo assistendo agli ultimi giorni dell’era di Gutemberg.
Ecco. Questo è l’archetipo di quelle che definisco battaglie di retroguardia. Non battaglie perse: a volte si possono anche vincere (anche se non mi sembra questo il caso). Ma battaglie di retroguardia restano.
E le si combatte quando, davanti ad un nuovo scenario, di quelli che cambiano i punti di riferimento e i paradigmi acquisiti, si cede all’istinto di rifugiarsi nel vecchio, per lo più idealizzandolo (è proprio vero che la presenza dell’editore è una garanzia minima di serietà e qualità? Mah).
La trovo una reazione infantile.
Forse, di fronte ad un cambio di marcia di questa portata, la cosa migliore è cercare (e lo sforzo non è poco) di capire almeno le coordinate fondamentali di quello che sta accadendo, e magari scegliere le due o tre cose che ci vogliamo portare dietro dal mondo come era prima. E poi usare tutte le conoscenze che ci siamo costruiti per tradurre queste due o tre cose nel linguaggio nuovo che ogni mondo nuovo porta con sé.
Se tra queste cose che vogliamo salvare ci sono la serietà e la qualità, allora forse dobbiamo capire che il nuovo linguaggio ci impone di passare da una visione basata sulla “selezione a monte” ad un’altra che si fonda sulla “visibilità a valle”. Per dire che cosa intendo per “traduzione”.
Anche se, per quanto mi riguarda, serietà e qualità sono due cose che con la letteratura non hanno granché a che vedere. E poi oggi ho una gran voglia di leggermi uno scrittore che scrive per vanità. Poterlo fare mi sembra mi porti un po’ più vicino a quella che qualcuno chiama libertà.
Diciamo pure che e’ piu’ il timore di una pochezza di preparazione culturale che spinge in tanti e tanti fronti a gridare allo scandalo quando non c’e’ un “tutore”, ovvero un ente o una persona fisica che controlla la “qualita’” di quanto la “gente comune” ormai riceve senza avere gli strumenti di discernimento.
Ma dove sono finite le rivoluzioni culturali?!?
E quando cominciamo a credere nuovamente alle tempeste che incarnano i principi dello sviluppo creativo del pensiero (cari a De Bono)?
Ma se nel ’68, solo per fare un esempio e per parlare di un anno a me caro, si fossero avuti tutori efficienti che in modo efficace avessero rivestito le sconcezze che ha portato il nuovo tumulto che ha stravolto una certa parte della societa’ e che si e’ poi, in tempi successivi,affrettata a dichiarare fertile di tante nuove idee, allora cosi’ contenuti saremmo oggi stati gli stessi? Migliori? Chissa’ che lavoro hanno compiuto gli editori in quegli anni.
In sostanza, chi puo’ dire da quale scritto arriva un ispirazione, un’illuminazione anche per utile per la propria vita’? L’ispirazione, come ci insegnano nei corsi super-strutturati e certificati, arriva da dove mono te l’aspetti.
E poi, alzi la mano chi non si e’ mai abbandonato ad una sana, piacevole e rilassante lettura’ di vanita’ d’estate sotto l’ombrellone…
Sono convinto che ci sia posto per tutti i tipi di pubblicazione, purché diano del valore aggiunto a chi le legge…
Discorso interessante e complesso.
io ho la fortuna di aver pubblicato sia con grandi editori sia con piccoli.
I grandi ti affiancano un editor che ti segue fino alla conclusione del lavoro e ti fornisce punti di vista diversi che arricchiscono lo scambio di idee.
E questo, nonostante a volte sia difficile da accettare per l’autore (quando è troppo presuntuoso o troppo focalizzato sul suo punto di vista)è decisamente un elemento positivo per il miglioramento qualitativo dell’opera da proporre poi al pubblico.
I piccoli editori non si possono permettere economicamente di fornire un editor.
Quando va bene si occupano dell’impaginazione (a livelli diversi di competenza, in base all’organico e alla formazione delle forze disponibili).
Raramente arrivano a fornire servizi relativi a distribuzione, propaganda, presentazioni ecc.
In quest’ottica il self publishing non è molto diverso dalla pubblicazione con il “piccolo editore medio”.
Se l’autore deve fare tutto da sè, che lo faccia almeno “per sè”, senza vincolarsi a contratti e a percentuali di diritti d’autore a volte ridicolmente basse.
Non considero, ovviamente, in questo discorso tutto quel variegato mondo di pseudo-editori che in realtà si limitano a stampare qualsiasi cosa gli venga proposta chiedendo in cambio soldi o acquisto copie.