Storytelling buono, storytelling cattivo (più che altro il secondo)

Dibattito interessante, in questi giorni, sull’uso dello storytelling nel giornalismo italiano. Ne hanno parlato Luca Sofri, Federico Ferrazza, Massimo Mantellini.
Sbaglierò, ma mi sembra che tutte le posizioni partano da un presupposto che non riesco a fare mio: lo storytelling è di per se stesso uno strumento più manipolativo rispetto ai fatti e ai numeri.
Nessuno di loro nega che sia uno strumento e non un fine ma, come dire, se i fatti venissero paragonati ad un coltello (uno strumento né buono né cattivo in sé, dipende dall’uso che se ne fa: può servire per ammazzare un poveraccio oppure per tagliare un cocomero), lo storytelling verrebbe paragonato ad una pistola (certo che è solo uno strumento, che se ne potrebbe anche far un buon uso, ma meglio diffidarne a prescindere).
A dire il vero, in maniera piuttosto esplicita, viene data una ragione di questa diffidenza: si tratterebbe di un problema di rappresentatività: possiamo anche raccontare una storia vera, ma quanto questa è rappresentativa di un fenomeno più generale? E se raccontiamo soltanto storie eccezionali, non è che ci sfugge completamente il quadro di normalità da cui emergono queste eccezioni?
Vero. Ma è vero anche per qualsiasi altra informazione non narrativa, e lo è tanto più in un sistema (in un mondo) complesso. Non vedo un legame stretto, quindi, tra il problema e lo strumento.

Credo, invece, ci siano due motivi fondamentali e impliciti che alimentano la diffidenza verso lo storytelling, forse con qualche ragione:

  1. Si tratta, innanzitutto, di uno strumento particolarmente potente di comunicazione delle idee, per tutte le ragioni che ho già argomentato più volte. Un po’ come dire che, se lo storytelling fosse un coltello, si tratterebbe di un coltello molto (troppo) affilato.
    Perché, allora, non rinunciarci? Visto quanto è rischioso usare un’arma così potente, meglio lasciar stare, accettando di privarsi anche dei potenziali benefici.
  2. Al contrario dei fatti e dei numeri, una narrazione può, costitutivamente, essere falsa senza per questo essere immorale o censurabile (una favola, un racconto, un romanzo non raccontano verità, ma non per questo sono oggetto di condanna). Questa caratteristica, accennata da Luca Sofri nel suo post, ne fa effettivamente uno strumento più facilmente asservibile a fini di persuasione e di propaganda, creando una zona grigia in cui le storie vere non si distinguono più da quelle false.

La domanda è, allora: può la combinazione di queste due caratteristiche rendere lo storytelling più simile ad una pistola che ad un coltello? Può renderlo uno strumento di cui (specie se si parla di giornalismo, ma il principio vale anche in altri ambiti) è bene diffidare a prescindere?

La mia risposta, forse non serve neppure dirlo, è “no”.

Primo, perché il piano inclinato della logica che sta dietro a questo ragionamento è piuttosto scivoloso e nasconde rischi non trascurabili. Uno su tutti: dove sta il confine secondo cui il coltello sarebbe “troppo” e non “giustamente” affilato?
Condannare lo strumento per esorcizzarne gli effetti potenziali, quando si parla di comunicazione, insomma, è una strategia che paga davvero raramente.

Secondo (ribadisco quanto ho già scritto alla fine di questo post), perché si tende sempre a concentrare l’attenzione, quando c’è in gioco questo tema, su una specifica funzione della narrazione, quella di trasmettere una visione del mondo preconfezionata dentro alla capsula indistruttibile di una storia. In realtà, spesso le storie (anche nel giornalismo) servono a fare una cosa diversa e preziosa, che non vorrei gettare via: aprire la visione del mondo invece che chiuderla, iniziare una comune costruzione di senso.
Certo, anche quello delle narrazioni identitarie (specie nel nostro Paese) è un tema che si porta dietro più di un caveat. Però, buttare il bambino con l’acqua sporca, anche no.

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