Baricco legge Steinbeck
Alessandro Baricco, lo scorso 3 ottobre, ha proposto su RAI 3 un reading che ha suscitato le solite polemiche (solite, intendo, quando c’è di mezzo Baricco).
Furore, di John Steinbeck.
Io l’ho trovato interessante.
Baricco fa solo due cose: legge alcune pagine, colma i vuoti con il suo racconto della storia.
E se lo fa in maniera a tratti un po’ teatrale è perché siamo a teatro, accipicchia.
In realtà, però, presenta un’idea, che, per come l’ho capita io, è fondamentalmente questa: il nostro atteggiamento sull’immigrazione non ha niente di originale, è la solita reazione di difesa di chi sente minacciati ciò che ha e ciò che è, e allora reagisce in modo egoista e, a tratti, violento. Ma, soprattutto, irrazionale, nel senso letterale del termine: non basato su elementi oggettivi e documentabili.
Generalizzazioni, stereotipi, logica amico-nemico, questo armamentario qui.
Mi pare ci sia anche un’altra cosa, visti i brani scelti (ma da qui in avanti sono meno sicuro): quel fatto che a noi sembra che le nostre idee ed opinioni siano il frutto delle analisi che facciamo del mondo che ci sta attorno. Per lo più, invece, siamo vittime di riflessi condizionati, di automatismi. Il nostro pensiero, insomma, non è quella cosa solida che ci piace credere.
Deduzioni mie, perché per gli oltre 100 minuti del reading Baricco non pronuncia un’idea.
Semplicemente, racconta e legge. Anche quando, alla fine, cerca una sintesi, lo fa con la voce di uno dei personaggi.
C’è solo una convinzione davvero espressa, all’inizio, per qualche secondo. Ed è che da quello che hanno vissuto i protagonisti di Furore e da come lo ha raccontato Steinbeck, possiamo imparare a dare nomi a ciò che viviamo oggi. Punto. Quali siano questi nomi, però, non viene detto.
Lo si potrebbe anche prendere per un modo un po’ vigliacco (o, per lo meno, un po’ retorico) di dire la propria.
A me non sembra, proprio, così.
In un certo senso, mi sembra anche un modo rispettoso.
Io ti racconto una storia, tu fanne quello che vuoi.
Certo: la storia la scelgo io e scelgo anche dove mettere gli accenti. Ma le regole del gioco sono chiare.
Aggiungo solo che ho visto fare una cosa molto simile a Malcom Gladwell, in uno speech per TED.
Lui, quella volta, racconta la storia di Davide e Golia. In più, nel suo caso, ci mette alcuni elementi che faranno da supporto alla sua, originale, interpretazione (a cui ha dedicato un libro).
Ma non aggiunge quasi nulla alla storia, se non la frase finale:
E c’è, credo, in tutto ciò, una lezione molto importante per tutti noi. I giganti non sono così forti e potenti come sembrano. E a volte il pastorello ha una fionda in tasca.
(Faccio notare la finezza di tradurre il messaggio nel linguaggio stesso della storia).
In sintesi: forza dello storytelling, da una parte.
Capacità dello speaker di mettersi da parte, dall’altra.
Se la sai fare come Baricco e Gladwell, una bella operazione, almeno per me.
Sul tema del public speaking e di come costruire una strategia di comunicazione in pubblico ho scritto un libro: Il design delle idee (Egea Editore). Più informazioni qui
Bella riflessione. Sai sempre dare spunti e aprire porte che viene voglia di attraversare
Grazie Stefano.